«Ci sono villeggianti diversi, nell’estate del Mugello, oltre a quelli in cerca di fresco, silenzio e sagre del tortello. Sono i profughi del mondo, gli scampati a povertà e violenze che ascoltano musica afro nelle canoniche di chiesette sperdute».
La Repubblica, ed. Firenze, 6 agosto 2016 (c.m.c.)
Quando Moussa è arrivato a Faltona, a 4 chilometri da Borgo San Lorenzo, era quasi buio e aveva ancora addosso il salmastro della traversata. «Ma dove siamo? In una foresta?» si è detto scendendo nell’aia del casolare insieme agli altri ventiquattro compagni, scalzi e con addosso solo magliette strappate e pantaloni stretti con gli spaghi. Non è facile passare dal mare aperto a un bosco di castagni nel giro di dodici ore di pullman.
E quando non vedi né una casa, né un’auto, e l’unico rumore è un lontano borbottio di trattore, «ti chiedi dove sei finito »: non ci sono città, in Italia? Non era un paese pieno di vita, occasioni, cose da fare? Ci sono villeggianti diversi, nell’estate del Mugello, oltre a quelli in cerca di fresco, silenzio e sagre del tortello.
Sono i profughi del mondo, gli scampati a povertà e violenze che ascoltano musica afro nelle canoniche di chiesette sperdute, cucinano cus cus speziati a pochi metri dai barbecue dei turisti, e, di notte, corrono nel buio pesto della provinciale con addosso i giubbotti catarifrangenti. Sono oltre 400 (ad oggi) distribuiti su 9 Comuni, accolti senza clamorosi casi di rigetto, a parte Firenzuola (governato dal centro destra), o il quartiere di Borgo San Lorenzo intorno alla palazzina della stazione, dove però sono piombati in 50 mentre tutti gli altri sono piccoli gruppi, in gran parte sparsi nelle campagne, nuovi abitanti delle coloniche abbandonate.
È l’ibridazione del paesaggio di Giotto, uno scarto antropologico che spiazza non solo i mugellani, ma anche i loro ospiti del Ghana e del Senegel, del Burkina e della Costa D’avorio, della Nigeria e del Bangladesh, impauriti dalle bisce dei campi «perché da noi i serpenti sono tutti velenosi», spiega Barry, uno dei ragazzi di Faltona, o convinti di poter cacciare lepri e fagiani di notte con le trappole.
Un po’ per nostalgia, un po’ per rivalsa, piantano negli orti zucchine e pomodori ma anche zenzero e peperoncino, «anche noi abbiamo una tradizione» spiega Patrick, nigeriano, mentre adesso bisogna impararne un’altra, e in fretta, perché, come si sentono dire tutti i giorni, «vi servirà per vivere».
Ripartire «dalle mani, dai piedi, che quelli nessuno te li toglie», è il mantra degli operatori della Cooperativa il Cenacolo, che hanno ripulito la colonica ora diventata una casa, molto spartana ma dove, di sicuro, «non cadono bombe », come qualcuno temeva appena arrivato.
Nei Cas (i centri di accoglienza straordinaria) e negli Sprar (per i richiedenti asilo) mugellani i ragazzi studiano l’italiano, seguono laboratori di falegnameria, cucinano, tengono l’orto, giocano a calcio nei campi, fanno il bagno nella Sieve accanto alle famiglie di Borgo, che all’inizio si scansavano e adesso invece li invitano ai pic nic, e nelle ore libere, o la sera, possono uscire. Ma per andare dove, e soprattutto: come? È il volto più arduo dell’accoglienza bucolica, Borgo e Firenze sono a portata di Sita, ma la Sita la sera non c’è, e a una certa ora bisogna tornare sennò parte la segnalazione alla prefettura.
Ci sono le bici, ma con 35 gradi nemmeno a vent’anni è facile pedalare per trenta chilometri.Yassin, sudanese 34 enne operatore dell’Associazione Progetto Accoglienza, con 25 ragazzi nella canonica di Mucciano, lo ripete: «Preferireste pigiarvi in un appartamento a Firenze, dove se si sposta una sedia i condomini scrivono al prefetto?». Ma vai a spiegarlo a ragazzi già scampati alla morte cento volte, e che adesso cercano di scampare ai loro pensieri, ai loro incubi notturni: altro che silenziose notti mugellane, «in città ci si distrae, si fanno conoscenze, si pensa ad altro» spiega Mavis, nigeriano, e magari «si trova lavoro».
Yassin insiste, in città i lavori facili sarebbero proprio quelli da evitare, spaccio, furti, «meglio reggere l’impatto col nuovo mondo in un territorio protetto, che scontrarsi subito col suo volto peggiore». I ragazzi mugugnano, ma intanto hanno fatto amicizia coi vicini, che li chiamano per qualche lavoretto e poi gli offrono il dolce, mentre le aziende agricole li cercano per i lavori nei campi e li pagano con i voucher, sia pure con un tetto massimo, sennò si deve lasciare il Cas, «una assurdità della burocrazia», dice Yassin. Un’altra è che a Mucciano la Asl ha fatto smontare un pollaio già pronto perché non rispettava la distanza dalla casa, mentre è vietato mandare i ragazzi nei boschi a tagliare la legna.
Insomma, sì: scaraventare il mondo in Mugello è stata una scommessa. Ma che forse è valsa la pena, per gli uni e per gli altri: «Qui nessuno è leghista» dice un anziano di Borgo seduto in piazza Dante, «è solo questione di abitudine, dateci il tempo». Qualcuno ogni tanto protesta, sì, per i “neri” che chiedono l’elemosina nei bar, «ma finisce lì», e insomma quando Matteo Salvini ha provato a puntare su queste parti si è ritrovato contro una folla di incazzati. Eleonora Moscardi è la responsabile per i migranti di Associazione Insieme, che si occupa dei 31 ospiti della canonica di San Gavino, a dieci minuti in bici dal centro di Scarperia: «I paesi piccoli sono più diffidenti all’inizio, perché non sono abituati alle novità», spiega, «ma siccome c’è più coesione sociale, alla fine sono i meno impauriti».
Così, nel giro di dieci mesi Abel e Ambrose, Razu e Faruk sono diventati di casa nei bar e nell’ambulatorio del medico, e portano i loro piatti etnici alle feste della scuola. C’è chi si è dato del cretino quando, dopo aver pensato che «tutti questi musulmani avrebbero riempito il Mugello di moschee», la domenica li ha trovati a messa, perché metà di quelli di San Gavino sono africani, sì, e però cattolici. E se proprio si vuol parlare di religione, il vero sgarbo non è semmai di aver messo degli islamici dentro le canoniche? Meglio rifletterci su. Magari con i nuovi arrivati, insieme sotto l’ombra dei castagni.