Il manifesto, 24 agosto 2016, con postilla
L’articolo-appello di Valentino Parlato (Economia e politica, una crisi mai vista, il manifesto dell’11 agosto), è un grido di appassionata disperazione (mi si consenta il termine in una accezione non disfattista) contro la «morte della politica, ridotta a (mala) amministrazione dell’esistente». Un pur fugace raffronto con altri tempi (quello dei Togliatti, Nenni, La Malfa e perfino De Gasperi), appare impietoso, fuori misura – sostiene Parlato -, tanto quella attuale è un’epoca di tristi ed effimere passioni, oltre che mediocri figure.
L’articolo denuncia la crisi culturale che accompagna la morte della politica, quasi non si riuscisse più a rappresentarla con la letteratura, l’arte, la poesia, la musica, i linguaggi con i quali, in passato, sono state raccontati periodi di crisi (si cita, ad esempio, Furore di Steinbeck, a proposito della Grande Crisi del Ventinove). Come ci rappresentiamo oggi? In che modo raccontiamo noi stessi e l’epoca che attraversiamo?
Solo raramente la letteratura, il cinema, l’arte in generale, riescono oggi a raccontare o rappresentare con efficacia vissuti di fragilità, storie minori di comunità accoglienti, piccoli (ma importanti) episodi di solidarietà. Queste narrazioni svolgono una funzione sociale salutare, restando però minoritarie, frammentarie, così che solo in qualche caso sono capaci di indicare, indirettamente, altre strade che la politica potrebbe percorrere, fuori dal rumore delle grandi ideologie, dei dibattiti estenuanti sulla sinistra che non c’è ma che vorremmo.
Nel frattempo, le casematte gramsciane del pensiero critico – scuola e università – venivano occupate, smantellate, convertendole alla più perversa delle ideologie liberiste: quella della valutazione di qualità, del cosiddetto merito individuale misurato a suon di indicatori partoriti da fantomatiche agenzie private.
Non furono i rappresentanti del pensiero liberista a compiere questi misfatti: l’iniziativa fu intrapresa ad opera di politici della sinistra che in un sol colpo cancellarono l’eredita di don Milani, a dimostrazione che l’avversario non veniva da lontano; nasceva e cresceva nel solco della stessa cultura di sinistra.
Fare politica in modo nuovo significa allora rifiutare innanzitutto di assumere le stesse modalità di ciò che si vuole combattere, dice Michela Murgia nel suo ultimo libro dal titolo polemico Futuro interiore. Rifiutare quella logica stringente e perversa del fare, altrimenti il rischio è quello di ritrovarsi nei luoghi in cui si deve decidere facendolo nell’unico linguaggio che sarà rimasto per farlo e che è quello stesso da cui ci si voleva liberare.
Non è forse questo il dramma della sinistra? L’aver pensato furbescamente, ad esempio, di condizionare i “miracoli” dell’economia finanziaria usandola a proprio vantaggio o l’aver pensato che, una volta occupato il Palazzo, quello stesso linguaggio usato dagli avversari avrebbe assunto un significato diverso. Bastava, in una parola, prendere il potere e il mondo sarebbe cambiato.
Non è ancora questo che si pensa delle Olimpiadi? A sinistra si dice che sono quasi sempre gestite male, ma che se a farlo fosse la sinistra diventerebbero un’opportunità eccezionale; ecco il miracolo! Di più, basta assistere a una qualche discussione politica di qualche nuova sinistra nascente in occasione di elezioni politiche, per capire subito quanto il linguaggio, i metodi e le astuzie usate appartengono al passato respingendo chi si avvicinasse con curiosità e magari speranza.
Questo delirio di onnipotenza e di supponenza ha avuto come esito lo sradicamento totale dell’idea stessa di un’altra possibile via; vale per la l’idea di crescita, di sviluppo, per la globalizzazione e perfino per l’idea di progresso. Miti e riti che rimbalzano da sinistra a destra e viceversa, con gli stessi contenuti, come se a cambiare loro il segno spettasse al Conduttore.
E così la vulgata machiavellica del fine che giustifica i mezzi ha scatenato la ricerca del compromesso ad ogni costo fino alla perversione della sinistra stritolata dalla sua stessa misera furbizia.
Un delitto perfetto dal momento che omicida e vittima sono la stessa persona. Così oggi scopriamo che tanti compagni non nutrono simpatie per i migranti, che condividono l’idea di supremazia dell’Occidente, che hanno una cultura sessista, che sono fiancheggiatori del Mercato, del Privato, che ci hanno concesso la libertà assoluta di avere tutto ciò che desideriamo, che, ancora, tanti compagni mandano i figli a studiare alla Bocconi, mentre con l’altra mano firmano petizioni a favore dell’università pubblica.
E’ mancata una rivoluzione culturale all’altezza della crisi né se ne intravedono segnali. Tanto più allora è da prendere in considerazione la proposta di Parlato quando, dalle pagine di questo giornale, sollecita «una discussione che mobiliti e apra una battaglia culturale e politica». Quali che siano state le colpe e gli errori del passato e quali che siano le difficoltà del presente, esse non ci possono esimere dal prenderci le responsabilità di sognare un futuro diverso.
Ma, per farlo, sforziamoci di utilizzare un linguaggio nuovo, nuovi modi di dialogare tra noi; utilizziamo il linguaggio della tolleranza e della pazienza, considerato che all’orizzonte non si intravedono nuovi profeti che ci salvino dal naufragio in corso.
postilla
L'errore di puntare al potere per il potere è cominciato con D'Alema ed è giunto al punto terminale con Renzi; più giù c'è solo il fascismo. Per costruire una realtà politica e sociale che svolga nel XXI secolo un ruolo simile a ciò che fu la sinistra dei secoli sorsi (cioè una forza antagonista al sistema dominante) occorre saper affrontare problemi nuovi (dall'equilibrio tra uomo e ambiente all'esodo dai Sud ai Nord del mondo) e occorre insieme individuare (e saper mobilitare) una nuova base sociale di riferimento. Il mondo degli sfruttati è oggi diverso da quello dei secoli passati. Hic Rhodus, hic salta .