La Repubblica ed. Milano
La lunga notte dell’urbanistica
di Luca Beltrami Gadola
Questa specie di calvario che è l’approvazione del Piano di governo del territorio sembra veramente non finire mai e, nella storia delle delibere adottate negli ultimi anni dal Consiglio comunale milanese, non ne ricordo una altrettanto travagliata.
Già questo sta a indicare di quanto poco consenso goda questo nuovo strumento urbanistico, poco consenso che è rispecchiato anche dalla sua poca notorietà presso il grande pubblico.
L’opposizione, pur con qualche grave sbandamento, sta conducendo la sua battaglia e, opposizione a parte, lo spettacolo del Consiglio che alle quattro del mattino, in un’aula praticamente deserta nei banchi del governo cittadino, delibera sul futuro di Milano, dovrebbe indurre tutti a una riflessione sulla serietà di adunanze consiliari che durano venti e più ore consecutive. Ammettiamo pure che molti degli emendamenti avessero lo scopo di tirare in lungo, ve ne sono invece molti che richiederebbero grande attenzione.
A margine di questo calvario sono state spese opinioni di difficile comprensione come questa, apodittica: «Meglio un brutto Pgt, ancorché emendato, che andare avanti con il vecchio Piano regolatore». Nessuno ha spiegato compiutamente quest’affermazione se non adducendo a sostegno della sua tesi una cosa sola: i tempi son cambiati e tanto rapidamente che ci vuole uno strumento agile e snello che consenta di seguire le mutazioni della città. Pregherei i sostenitori di questa tesi di andarsi a riguardare il Pgt, quello oggi in discussione, e spiegare al colto e all’inclita, meglio sarebbe dire agli informati e agli ignari, dove sta quest’agilità in un documento di migliaia di pagine.
Non è detto che questo documento arrivi in porto, perché vi sono ancora alcuni determinanti passaggi per la sua definitiva adozione, ma mi domando alla fine che diavolo di documento sarà. La legge 18.6.2009 n.69 su semplificazione e altro, ma anche molti precedenti provvedimenti e direttive ministeriali e circolari della Presidenza del Consiglio, hanno vanamente raccomandato ai legislatori che i testi amministrativi fossero chiari e tenessero conto della specificità degli operatori cui sono indirizzati. Molte Regioni hanno emanato norme e raccomandazioni alle amministrazioni locali perché si muovessero in tal senso: la Lombardia, che sappia io, no. Sarebbe bene lo facesse prima dell’adozione definitiva del Pgt milanese che, per com’è steso, non rispecchia certo le caratteristiche che da più parti si auspicano: chiarezza, semplicità e concisione.
Queste caratteristiche sono anche quelle che garantirebbero la nuova norma da continui ricorsi ai Tribunali amministrativi, fatti salvi i ricorsi di legittimità, insomma eviterebbero almeno le infinite liti sugli aspetti interpretativi ma anche, quel che è più importante, le furbizie di qualche funzionario troppo sensibile agli interessi di una parte soltanto dei cittadini o per affiliazione politica o per altre meno nobili ragioni. Il sindaco in questi giorni ci ha anticipato che farà la sua campagna elettorale – a spese del Comune – illustrando i risultati raggiunti, senza dubbio anche parlando di Pgt e di là dalle solite affermazioni, anch’esse apodittiche, che ci dirà al riguardo?
Il Corriere della Seraed. Milano
Innse, dalla lotta sul tetto ai turni di lavoro notturno
di Andrea Galli
Certe sere si tira l’alba perché non bastavano primo e secondo turno, ora c’è anche il terzo. E non si sa se tutti riusciranno a fare le ferie, dipende dalle urgenze della produzione. All’Innse, un anno dopo, oggi si lavora anche di notte.
Ogni tre giorni in media arriva un curriculum, certe sere si tira l’alba perché non bastavano primo e secondo turno ora c’è anche il terzo, il prossimo mese sono previste due settimane di ferie e non è detto che tutti le faranno, bisogna vedere. Bisogna vedere se ci saranno commesse urgenti, come a esempio le enormi valvole per metanodotti e gasdotti in fabbricazione.
All’Innse, un anno dopo, è così, proprio così: si lavora, tanto, anche di notte — il terzo turno inizia alle 22.30 e finisce alle 6.30 —, da fuori lo sanno, e in portineria si presentano quarantenni e cinquantenni altrove licenziati, una decina al mese, magari all’Innse assumeranno a settembre, nel settore amministrativo, si viene a sapere, e non fra gli operai. Anche i simboli, i modelli, e la Innse lo è — quanti l’hanno copiata e mutuata in altre aziende, cassintegrati saliti sui tetti, trincerati in presidi —, anche i simboli e i modelli in fondo hanno dei limiti. E comunque l’organico è al completo. Ci sono, gli operai. Ci sono sempre stati. Il problema è che mancava il padrone. «Buono o cattivo non importava, ci serviva un padrone, volevamo un padrone. Sì, fa strano a dirlo. Però è la verità» racconta Max Merlo.
Merlo è uno dei quattro del carroponte ed è anche quello di una fotografia. Partiamo da questa. Nella fotografia ci sono due persone. A sinistra Attilio Camozzi, a destra Merlo. Si stringono la mano. È il giorno della svolta. Camozzi guarda il fotografo, è un sorriso un po’ timido. Merlo guarda Camozzi e non ride, anzi è serissimo, pare perfino arrabbiato, forse è soltanto stanco. Sul carroponte rimasero otto giorni. Era l’atto estremo, e sarebbe stato nel bene o nel male l’ultimo atto. Ricordate?
Via Rubattino. Periferia di Milano. Uscita della tangenziale. Qualche metro proseguendo sulla sinistra ci sono i Martinitt; qui davanti, invece, si alzano, stendono e sbriciolano i capannoni scheletrici dell’ex Innocenti, dell’ex Maserati: è una zona di storia questa.
In mezzo ai capannoni, c’è il padiglione occupato dall’Innse. Ci fabbricavano presse. Poi il proprietario licenziò gli operai, cercò di portarsi via i macchinari, e successe il finimondo. I lavoratori occuparono, mandarono avanti la produzione in autogestione, fu resistenza, andarono sui giornali, in televisione, si svegliarono i sindacati e soprattutto i politici, in Prefettura s’aprì un tavolo, i quattro si arrampicarono sul carroponte e senza certezze, senza accordi, non sarebbero più scesi, giuravano; si fece avanti Attilio Camozzi, quello della fotografia con Merlo. Il Cavalier Camozzi, capo dell’omonimo gruppo industriale bresciano, acquisì l’attività della Innse.
Camozzi è uno di poche parole. A chiamarlo al telefono, dice «pronto» e dalla voce si capisce che vorrebbe subito chiuderla lì e passare al «d’accordo, arrivederci», è già passato troppo tempo. Figurarsi provare a chiacchierare un po’. Lo avevamo cercato alla fine di marzo, quando alla Innse avevano assunto due ragazzi a tempo determinato. Cavaliere, e le assunzioni? «Ma no, non diciamo niente, manteniamo un basso profilo». Ieri mattina, nuova chiamata. Cavaliere, abbiamo saputo del terzo turno, addirittura, non è un risultato clamoroso? «Ma no, non diciamo niente, manteniamo un basso profilo».
Più tardi, Camozzi farà chiamare dall’avvocato del Gruppo, il dottor Claudio Tatozzi. Avvocato, in fabbrica gira bene, no? «Ci sono tanti passaggi da completare. Dev’essere deciso come verrà riqualificata tutta questa enorme area sulla quale siamo presenti anche noi. Il Comune e la società proprietaria dei terreni debbono completare l’istruttoria, vediamo gli sviluppi. Le posso dire, in ogni modo, che per il Gruppo la Innse rappresenta un investimento tra i dieci e i quindici milioni di euro complessivi. L’operazione non è stata uno spot. C’è un obiettivo. A lungo termine. In questo progetto crediamo tantissimo».
La Innse è ridipinta a nuovo, giallo e grigio predominano, è stata fatta pulizia, c’è un’aria, un odore, di fabbrica, di tornio, di ingranaggi, di olio, che strano, a Milano, e di questi tempi, con la crisi. Possibile? Il dottor Pietroboni è il direttore dello stabilimento. Dice: «Piano, piano. Il nostro settore, quello della meccanica pesante, è stato colpito a lungo. La ripresa, dicono, avverrà a fine anno. Molto più probabilmente nel primo settembre del 2011. Abbiamo commesse per i prossimi due, tre mesi. Bastano? Non bastano. Puntiamo ad avere commesse per i quattro, cinque mesi successivi, scadenza che garantisce un certo margine».
C’è un operaio che tossisce, che sputa. «Lavoriamo moltissima ghisa al posto del ferro. Il motivo? Prendiamo commesse in ghisa anziché in ferro, se ne trova di più sul mercato e non tutti la vogliono lavorare... La ghisa mette in circolo una polverina che invade la gola, scende giù, ti uccide i polmoni».
Ci sono torni che hanno quasi un secolo. Li han fatti in America, altri in Germania. Non tutti funzionano. «A vero regime dovremmo essere molti di più, almeno centocinquanta operai» raccontano. Difatti metà stabilimento è vuoto, le luci spente, polvere e ruggine. Dicono che Camozzi sistemerà un mega impianto fotovoltaico sul tetto. Dicono anche attorno alla fabbrica sorgeranno alti palazzi e giardini, negozi e piste ciclabili. Il termine ultimo per firmare il progetto di riconversione dell’area è il 31 dicembre prossimo.