Il manifesto, 12 novembre 2014
Le ragioni dello «sciopero sociale» del 14 novembre sono definite con chiarezza. I bersagli, dal Jobs Act, alla legge 30, al «patto per la scuola», anche. Le rivendicazioni perfettamente comprensibili: dal salario minimo europeo al reddito di cittadinanza. Eppure che cosa sia uno «sciopero sociale» resta una domanda alla quale è molto difficile rispondere.
Come la quadratura del cerchio nessuna approssimazione esaurisce il problema, tanto da lasciarne sospettare l’inevitabile inconcludenza. Il nodo gordiano consiste, in sintesi, nel fatto che la produzione di valore e la sua appropriazione avvengono in larga misura al di fuori del lavoro dipendente e perfino al di fuori da una sfera di attività agevolmente identificabili come «lavoro». Quando diciamo «la vita messa al lavoro» il termine «sciopero» rischia di assumere un significato sinistro.
Una larga parte della società resta comunque esistenzialmente esposta all’ «estrazione» del valore e delle risorse che produce. Chi cerca lavoro, chi ci ha rinunciato, chi va a ingrossare gratuitamente le schiere governate dall’economia politica della promessa, chi si ingegna nell’individuare nuove forme produttive, chi agisce semplicemente la propria socialità è condannato ad alimentare i dispositivi dell’accumulazione e della diseguaglianza in una condizione di «autonomia eterodiretta» e indebitata.
Per il lavoratore precario lo sciopero può costare lo straccio di lavoro con cui sbarca il lunario, per il lavoratore gratuito la perdita di una pur fievole speranza, per chi cerca di inventare la propria strada una perdita di tempo. Quanto a chi smettesse di cercare lavoro, a chi importerebbe? Esistono naturalmente, e non sono affatto pochi, i lavoratori salariati, fabbriche, uffici, servizi che, per quanto sotto crescente ricatto, possono essere fermati.
Il 14 novembre sciopererà la Fiom e questo sarà ben visibile. Agli altri non resta però che la solidarietà e una partecipazione alle manifestazioni di piazza per affermare «ci siamo anche noi, siamo tanti, produttivi e privi di reddito e diritti».
È una occasione da cogliere, ma non l’esercizio di una forza propria, poiché è su quella del lavoro salariato che si continua a poggiare chiedendo (non senza ragioni che lo riguardino direttamente) di veicolare i bisogni e le rivendicazioni di chi invece ne è escluso. Per quanto si tratti di una risorsa politica e sociale si tratta anche di una lacuna e di un limite.
Lo «sciopero sociale» rimane una affermazione di principio, la «generalizzazione dello sciopero» un fatto argomentativo che spesso si risolve in azioni generose ma frequentemente rituali e che non varcano i confini del simbolico. Si può puntare alla sospensione di stage e tirocini, si può immaginare il picchettaggio dei luoghi del lavoro gratuito, ma spesso quest’ultimo non ha luoghi o è talmente disperso e frammentato da risultare fisicamente irrintracciabile, cosicché l’astensione stessa da queste forme di prestazione d’opera rischia di rimanere invisibile, salvo assumere dimensioni tanto estese che è difficile immaginare nella condizione di estrema ricattabilità in cui versano.
Si può conquistare come palcoscenico delle proprie ragioni qualche luogo di visibilità, un monumento, una piazza, ma anche questo non risolverebbe il problema dello «sciopero» inteso come sottrazione temporanea della propria capacità creativa alla produzione di ricchezza e al funzionamento della macchina economica. Per dirla in modo classico, servirebbe uno sciopero del valore d’uso contro il valore di scambio.
Il fatto è che «sciopero sociale», preso alla lettera, significa smettere di fare società, sospendere cioè quelle azioni e interazioni che caratterizzano il normale svolgimento della vita sociale, mantenendo quest’ultima, depurata dei suoi caratteri «funzionali», in una dimensione altra che ne contraddica l’asservimento alla condizione del lavoro e della produzione in senso più generale. Un altro tempo e un altro spazio.
Senza alcun intento blasfemo o irrispettoso, semmai il contrario, un modello assai radicale lo indicherei nello Shabbat ebraico. In quella festività, sebbene nella forma del divieto religioso che non coincide certo con la nostra idea di libertà, l’astensione dal lavoro viene estesa ad una serie di gesti e attività che caratterizzano il normale funzionamento della macchina sociale. Shabbat esclude appunto, con una geniale intuizione, tutti quegli aspetti della vita che sono sospettati di essere «messi al lavoro», valorizzando invece quei tratti della vita umana privi di significato strumentale.
Non si tratta certo di stilare una lista di attività (Shabbat ne prevede 39) proibite ma di cercare di individuare, con la massima fantasia e inventiva, i terreni della sottrazione possibile e quelli di pieno esercizio della libertà individuale e collettiva. Il paragone è decisamente strampalato e vale semplicemente come suggestione, tuttavia mi sembra utile a orientare lo sguardo in una materia che è finora rimasta oscura o del tutto indefinita.
Tornando, però, alle più consuete categorie laiche, lo «sciopero sociale» non può che trasformarsi in una nuova forma di «sciopero politico» che, messo da parte il miraggio della presa del potere, riesca a esercitarne il più possibile, rendendo ogni gesto di sottrazione una critica esplicita dell’ordine sociale ed economico esistente.