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Oreste Pivetta
Sciopero libera tutti
26 Marzo 2013
Società e politica
Marzo 1943: gli operai incrociarono le braccia e cominciò la Resistenza».In tempi in cui il lavoro sembra essere l’ultima ruota del carro e delle conquiste del “secolo breve” si fa strame, è utile ricordare momenti alti della nostra storia.

L’Unità, 26 marzo 2013

«C’era chi, tra i più giovani, ignorava persino il significato di quellaparola:sciopero. Eppure quel giorno, la mattina del 5 marzo 1943, incrociarono le braccia, riconquistando quella libertà e quella dignità che il fascismo aveva negato loro per anni e anni, un «ventennio» alla fine. Cominciarono a Torino, alla Fiat, a Mirafiori, la grande fabbrica, la fabbrica moderna, che quando venne inaugurata, solo quattro anni prima, era stata presa a simbolo dell’edizione più aggiornata del taylorismo, della razionalizzazione estrema dei processi produttivi (e dello sfruttamento, calcolato mossa per mossa, minuto per minuto), del grande balzo industriale dell’Italia fascista. Si presentò Mussolini stesso nel maggio 1939 ad aprire le porte di quell’enorme stabilimento, dove nel giro di pochi mesi avrebbero trovato posto ventimila operai. Mussolini fu accolto con freddezza, con ostilità celata. Il senatore Agnelli, il padrone di casa, ci rimase male. Mussolini se ne andò, mormorando: «Porca Torino». Si era reso conto che non avrebbe mai conquistato sino in fondo quella città, s’era confermato nell’idea di una città antifascista malgrado tutto. Come si dimostrerà nel giro di pochi anni, dopo l’ingresso in guerra, dopo i primi bombardamenti, dopo la prima fame, quando si scoprì sotto le bombe che il pane mancava e che il piano di razionamento congegnato dai gerarchi in camicia nera non dava da mangiare, quando si sopravviveva di borsa nera, le officine erano state militarizzate, le ore lavorative erano diventate dodici al giorno.

Cominciarono le proteste nel gennaio e nel febbraio, le prime negli stabilimenti di Fiat Acciaierie e di Fiat Diatto. A quel punto la parola d’ordine tra i comunisti in clandestinità, Leo Lanfranco, Umberto Massola, Ermes Bazzanini, Amerigo Clocchiatti, fu: sciopero generale. Organizzare uno sciopero generale, quando il diritto allo sciopero era negato, quando esprimere le proprie idee non era consentito, quando sindacati e partiti erano stati tolti di mezzo. La parola d’ordine doveva essere: «indennità di sfollamento». L’aveva concessa a gennaio il ministero delle Corporazioni, centonovantadue ore di salario (una mensilità) a tutti i capifamiglia in grado di dimostrare di essere sfollati. Mai pagata. Era una parola d’ordine che, senza pretendere nulla di più di quanto promesso da quello stesso regime, da-
va conto della condizione di miseria del pae-
se, della sofferenza dei lavoratori, diceva quanto la guerra opprimesse anche chi stava
a casa, operai famiglie bambini, quanto si volesse cambiare strada.

Si votò lo sciopero. Alle dieci in punto, al suono come ogni giorno della sirena d’allarme,
si sarebbe dovuto sospendere i lavoro. La direzione della fabbrica, a Mirafiori, il cuore
della protesta, avvertita, decise che quella
mattina la sirena avrebbe taciuto. Ma le
dieci dello sciopero rimasero: nel suo reparto Leonardo «Leo» Lanfranco, manutentore specializzato, reduce dal confino a
Ponza con Terracini e Secchia, assunto nonostante la sua fama di comunista perché
sapeva dominare il ferro, poi capo partigiano, trucidato dai fascisti nel febbraio
1945, chiamò i suoi. Tutti insieme improvvisarono un corteo dentro la fabbrica.
Leo Lanfranco venne arrestato pochi giorni dopo insieme con un centinaio di compagni. Vennero liberati, qualche mese dopo, il 26 luglio, dopo una protesta di lavoratori sotto le Nuove. Quello sciopero fu l’inizio. Non fu un successo. Qualcuno usò addirittura la parola fallimento. Ma l’organizzazione comunista, perfettamente «radicata», come si direbbe oggi, nel sistema industriale torinese, ebbe la capacità di diffondere la «notizia che conta»: lo sciopero c’era stato, gli operai avevano fatto sentire la loro voce. I lavoratori di altre fabbriche seguirono l’esempio. Tra il 9 e il 10 marzo entrarono in sciopero le Officine Savigliano, la Pimet, la Fast Rivoli, l’11 marzo la Riv, la Michelin, la Lancia, il 12 marzo toccò al Lingotto, il 15 si fermarono la Snia Viscosa, il cotonificio Valle Susa, il Gruppo Finanziario Tessile. Ne ricordiamo solo alcune. La protesta dilagò. In un crescendo che fece impazzire questura e partito fascista. Un rapporto dei carabinieri restituisce il calore di quelle giornate. Siamo alla Riv di Villar Perosa: «Alcuni operai sono uditi reclamare la pace separata e la fine della guerra. Altri, come avevano già fatto durante la notte, intonano Bandiera rossa, mentre c’è chi usa violenza ai colleghi che vogliono persuadere alla ripresa del lavoro... Energica l’azione delle donne, che dopo aver incitato i compagni, passano furiosamente alle vie di fatto contro i pochi elementi contrari che tentano di far fallire lo sciopero...».

Umberto Massola avrebbe ricordato molti anni dopo di incontri avvenuti per discutere l’esito di quegli scioperi. Se ne considerò subito il senso politico, il senso di una rivolta. Avrebbe ricordato ancora che il 14 marzo s’era recato nella tipografia clandestina, vicino a Milano, dove si stampava l’Unità. «Quando i compagni addetti alla tipografia – scrisse Umberto Massola videro il grande titolo da porre in prima pagina: ‘Sciopero di centomila operai torinesi! In tutto il paese si segua il loro esempio per conquistare il pane, la pace e la libertà’, saltarono di gioia e lavorarono di gran lena anche durante la notte per assicurare l’uscita del giornale l’indomani». Storie nostre.

L’indomani fu sciopero ancora e via via in tante altre fabbriche verso Milano. Il 23 scescero in sciopero gli operai della Falck, che cacciarono un manipolo di fascisti che avevano tentato di entrare in fabbrica. Il giorno successivo sarà la volta della Pirelli e poi della Caproni, della Bianchi, della Brown Boveri, dell’Alfa Romeo. Poi verso il Veneto, verso Porto Marghera, verso l’Emilia, verso la Toscana. La protesta diventò un fiume. Un moto che il regime non riuscì a frenare, il primo moto della lotta di liberazione: «Cominciava la guerra partigiana – scrisse Giancarlo Pajetta sull’Unità – là si gettava il seme della Repubblica italiana fondata sul lavoro».

Che la rivendicazione di un’indennità di sfollamento, delle 192 ore, potesse condurre a tanto, forse non era facilmente immaginabile. Neppure la fame, le condizioni penose di vita, le bombe e la paura, avrebbero potuto tanto se, malgrado tutto, malgrado tutti gli sforzi del regime, l’ostilità al fascismo, l’estraneità operaia alla retorica fascista, la distanza da una cultura totalitaria non avessero trasformato la sfiducia, la diffidenza, lo scetticismo della prima ora in un consapevole sentimento d’opposizione. Consapevole anche della durezza, dei rischi, del pericolo mortale di una lotta democratica in un paese senza democrazia.La repressione non mancò. Non subito, perché le richieste vennero accolte (fu Valletta a intercedere perché le rivendicazioni dei suoi operai venissero almeno in parte soddisfatte). Nelle settimane successive circa duemila operai vennero fermati, molti arrestati, molti spediti davanti al tribunale speciale.

Ma intanto qualcosa era accaduto. Dopo la battaglia di Stalingrado, a un passo dal crollo del regime. Molti di quegli operai che avevano scioperato scelsero di continuare la loro lotta in montagna nelle formazioni partigiane, accanto ai militari sbandati che avevano ripreso le armi. A Torino, a Milano, in tanti altri luoghi era stato il lavoro, in quegli scioperi per il pane e per la pace, a dettare la fine del fascismo, nell’avversione alle logiche della guerra, nella riaffermazione della irriducibilità sociale del conflitto di classe, nella rivendicazione dei diritti fondamentali, scrivendo le prime parole della futura Costituzione repubblicana.

questa clip racconta in forma di canzone gli eventi del marzo 1943


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