Non si fa perché non conviene all'economia e ai consumatori USA, e perchè a Parigi vuol fare bella figura. Ma se costruire il mostro convenisse e Parigi non ci fosse, allora direbbe si? La Repubblica, 7 novembre 2015
Il padre di tutti gli oleodotti non si farà. Barack Obama ha chiuso una discordia durata sette anni, che aveva spaccato in due il Nordamerica. Il presidente ha deciso di consolidare la sua eredità ambientalista, a tre settimane dalla sua partecipazione al summit di Parigi sul cambiamento climatico. Stop finale, dunque, per un’infrastruttura da quasi duemila chilometri, che avrebbe trasportato 800mila barili di petrolio al giorno: dai giacimenti sabbiosi dello Stato dell’Alberta (Canada) alle raffinerie dell’Illinois, giù giù fino a raggiungere i porti petroliferi Usa che si affacciano sul Golfo del Messico. Ci tenevano moltissimo, oltre al Canada, i petrolieri e i repubblicani. Gli ambientalisti ne avevano fatto il nemico pubblico numero uno, un progetto da contrastare ad ogni costo. Obama ha dato ragione a loro.
«L’indagine effettuata su mia richiesta dal Dipartimento di Stato – ha detto Obama annunciando il verdetto finale dalla Casa Bianca – ha concluso che l’oleodotto Keystone XL non contribuisce all’interesse nazionale degli Stati Uniti». Il presidente ha quindi elencato puntigliosamente tutte le ragioni: «Primo, non darebbe un contributo alla crescita della nostra economia che ha già creato 13,5 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi 68 mesi. Secondo, non abbasserebbe il prezzo della benzina per i consumatori, prezzo già sceso per conto suo. Terzo: non migliorerebbe la nostra autosufficienza energetica visto che già oggi produciamo più petrolio di quanto ne importiamo». Obama ha voluto smontare così pezzo per pezzo gli argomenti della destra, secondo cui il suo ambientalismo danneggia lo sviluppo economico e quindi l’occupazione. Guardando al summit di Parigi, Obama ha dichiarato che «l’America deve esercitare la sua leadership attraverso l’esempio che dà, dobbiamo proteggere il pianeta finché siamo in tempo». La guerra santa che si era sviluppata in questi sette anni attorno all’oleodotto, si è intrecciata con cambiamenti di tutto lo scenario energetico. La rivoluzione tecnologica da una parte (fracking e trivellazioni orizzontali) ha consentito un boom dell’offerta nordamericana. La frenata della crescita cinese ha ridotto la domanda. Il combinato dei due mutamenti ha fatto crollare il prezzo di petrolio e gas, soprattutto se espresso in dollari. Rispetto alle origini del progetto Keystone XL, la sua opportunità economica ora è molto meno stringente. Approvare la costruzione di un’infrastruttura così imponente significava, secondo gli ambientalisti, un incoraggiamento di fatto all’uso di energie fossili. Obama è stato aiutato anche da alcuni sviluppi politici: in Canada l’elezione del nuovo premier Justin Trudeau, meno legato alla lobby petrolifera rispetto al suo predecessore. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton ha sciolto ogni riserva annunciando la sua contrarietà all’oleodotto (e quindi, in caso di vittoria nel novembre 2016, alla Casa Bianca ci sarebbe comunque un presidente ostile al progetto).
Gli esperti ricordano che questo presidente ha già preso altre decisioni il cui impatto ambientale è superiore alla bocciatura del maxi-oleodotto. La più importante di tutte è stata la nuova regolamentazione delle emissioni carboniche per le centrali che producono energia: i tetti imposti daranno il contributo più sostanziale al taglio di gas carbonici da parte degli Stati Uniti. I repubblicani pur dominando il Congresso non sono riusciti a imporre la loro linea, negazionista del cambiamento climatico e allineata sugli interessi dei petrolieri.