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Enrico Pugliese
Scampia: come si criminalizza un quartiere
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
Un intervento assai poco "giornalistico", mette in campo l'intreccio di molte prospettive di ossservazione sulla miscela urbanistica complessa del "famigerato" caso di Scampia. Da il manifesto, 30 gennaio 2005 (f.b.)

La guerra di camorra che ha luogo a Napoli porta a preoccupanti considerazioni sulla situazione della città. Ma purtroppo ha portato anche a una serie di considerazioni prive di fondamento su Napoli e Scampia in particolare sia per quel che riguarda l’analisi sia per quel che riguarda i rimedi. Forse bisognerebbe invece cominciare a capire quello che sta succedendo. E non è facile. Qui non intendo affrontare la complicata e drammatica questione di Napoli, ma riferirmi solo a Scampia.

La mia esperienza di ricerca sul quartiere mi porta ad avere una immagine completamente diversa da quella truculenta che ne stanno dando i giornali. Parto - per fare un esempio - da un episodio che mi ha riguardato personalmente ma che riflette piuttosto bene l’atteggiamento nei confronti di Scampia e che ha molto a che fare con i processi di criminalizzazione del quartiere: dovendo andare in zona per delle interviste (siamo nel 2000) tentai di prendere un taxi e il tassista si rifiutò di portarmi dicendo che “ là ce sta ‘o far west”. La verità - come mi spiegò il tassista successivo - è che una corsa a Scampia è un pessimo affare perché è lontana e non si prendono passeggeri al ritorno (trattandosi di un quartiere popolare). Questa storia del far-west l’ho sentita ripetere fino alla nausea. E mentre il tassista aveva almeno i suoi buoni motivi materiali per mentire e diffamare il quartiere, ben più grave, e gratuita, è quella del “quartiere in mano alla camorra”, che si trova sulla bocca di tutti: giornalisti, politici e quant’altro. E la diffamazione, la criminalizzazione – perché di questo si tratta – non è priva di non è priva di implicazioni pratiche concrete, materiali quanto tragiche per la gente di Scampia. Diverse donne intervistate da me e dai miei collaboratori sostenevano di aver incontrato sempre maggiori difficoltà a trovare lavoro come persone di servizio per il fatto che vengono da Scampia. La brutta fama del quartiere si riflette su di loro e ne rende la loro condizione ancora più misera. Il tassista (e il giornalista) che parlano di far west sono corresponsabili delle loro difficoltà di vita.

I giomalie la televisione ci hanno poi abituati a pensare che a Scampia abitino tutti nelle “vele”. Grazie a dio (e, in parte, grazie al Piano di recupero del 1997) non è così: una larga parte degli abitanti legali delle Vele sono stati trasferiti in altre palazzine ben più umane. Scampia inoltre è un quartiere (anzi una sorta di subquartiere di Secondigliano) piuttosto misto. Ci sono le Vele, ma ci sono anche e da tempo altre strutture abitative. Proprio in prossimità delle Vele, ad esempio, ci sono diverse strutture residenziali per la piccola e media borghesia. Oddio: qui sono un po’ blindati, non si può negare. Ma ci sono. Il punto è che a Scampia vivono poveri sottoccupati in maggioranza, poi delinquenti - minoranza estrema, ma l’unica celebrata dalle cronache - e una solida componente piccolo e medio borghese che è costretta a vergognarsi di vivere a Scampia: il quartiere delle Vele.

Ma forse è bene intendersi su cosa sono le vele. Si tratta di costruzioni molto alte e grandi, indubbiamente belle dal punto di vista architettonico ma frutto di una cultura urbanistica già al declino all’ epoca della loro costruzione e comunque – almeno con il senno di poi - ovviamente male adatte a Napoli. La cultura urbanistica che le ha prodotte si era affermata in Italia quando già le condizioni dello sviluppo industriale capitalistico che le avevano determinate erano andate esaurendosi. Scampia insomma è il frutto di una cultura urbanistica fordista, dello sviluppo occupazionale nella grande fabbrica per la produzione di massa della società del pieno impiego (ancorché maschile ), con regolarità di occupazione e di salario.

L’idea del quartiere popolare residenziale, del quartiere dormitorio - per dirla come è - non era una follia partenopea: era il frutto di una cultura d’epoca. E cattiva ne fu anche la gestione. Poi vi furono le occupazioni, i terremotati e quant’altro. La tragedia è che anche le soluzioni più giuste e belle risultarono un tremendo boomerang. I grandi spazi disponibili - dovuti al rispetto tra area verde e area costruita - finirono per diventare inutili e grandissime spianate con effetti di agorafobia per chiunque. Nel frattempo gli edifici - solidissimi - cominciarono a degradare al loro interno. Nessuna vita sociale ed economica di quartiere si realizza per la totale assenza di negozi o botteghe artigianali a piano terra. E poi il tutto si aggravò con le occupazioni degli scantinati. Insomma la lista dei fattori di malessere sociale nelle Vele è lunghissima.

E questo più o meno lo sanno tutti. Non tutti sanno però che la cosa non finì lì. In base al piano di recupero si cominciarono a costruire i nuovi alloggi nei quali sono stati trasferiti una parte degli abitanti delle Vele. È incredibile l’immagine di vita sociale diversa che a prima vista danno le nuove e le vecchie strutture (abitate dallo stesso tipo di gente). Finanche i panni stesi ad asciugare sembrano più puliti e coloriti. Senza entrare nel merito dei numeri va ricordato che si sono realizzati diverse centinaia di alloggi nuovi e circa 600 famiglie si sono trasferite.

A gonfiare l’immagine di Scampia come quartiere dei disperati, di quartiere della droga e della delinquenza, hanno contribuito un po’ tutti, chi con buone chi con cattive intenzioni. Per quanto riguarda poi le Vele anziché puntare l’attenzione sul trasferimento degli abitanti nelle nuove palazzine e denunciare sistematicamente i motivi spesso ingiustificati e oggetto di faida politica si è preferito celebrarne l’abbattimento, quasi che abbattendo le Vele si risolvessero i problemi del quartiere. Tra l’ altro non è stato mai parte di alcun progetto l’abbattimento di tutte le Vele. Per la maggior parte di esse si è trattato semmai di discuterne l’eventuale destinazione.

Qualche anno addietro fu data grande risonanza all’ abbattimento della prima Vela, che non si lasciò neanche abbattere subito. Risuonò per Napoli un inutile boato, mentre l’elegante struttura in cemento resistette sbeffeggiando giornalisti e amministratori. La Vela non ne voleva sapere di essere pressa a simbolo del male. Proprio quel giorno era uscito su il manifesto un fondamentale articolo su Scampia e l’abbattimento della Vela di Vezio De Lucia, dal significativo titolo “Quella di oggi non è la mia festa”, il quale affermava che l’abbattimento non risolveva nulla.

I termini della questione non sono cambiati di molto neanche oggi. Si tratta di dare una nuova vita e una nuova immagine al quartiere. E le cose sono strettamente intrecciate. L’impegno per il trasferimento degli abitanti nelle nuove strutture rappresenta sicuramente un passo fondamentale: un passo da compiere in un terreno molto accidentato. Ma non si tratta solo di questo. Bisogna attrarre gente e attività. nell’area trovando delle soluzioni che rendano interessante il trasferimento di attività produttive e bisogna lavorare anche per migliorare la qualità della vita. Ovviamente la responsabilità. massima a questo riguardo è dell’amministrazione comunale e delle istituzioni locali. Non so se esse devono “avere uno scatto d’orgoglio”. Dovrebbero innanzitutto capire di più ed evitare faide politiche sulle spalle delle persone.

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