E non è l’identificazione con lei, Sara, amica sorella figlia, a guidare le mie parole. È la domanda di aiuto non raccolta, che mi agghiaccia. Una domanda evidente, concreta. Consumata tra i minuti che passano dal tentativo di fuga di Sara, e dal fuoco che brucia implacabile. Un’immagine molto efficace dell’incapacità di aiutare le donne a rischio, in situazioni difficili. Anche quando i segnali sono chiarissimi. Prevale l’indifferenza, il farsi i fatti propri. Manca il coraggio.
In effetti ci vuole coraggio, per fermarsi di notte e andare in soccorso di chi ha bisogno di aiuto. Sui social da ieri questa è la domanda prevalente. Io, cosa avrei fatto? È una domanda che non permette abbellimenti, indulgenze. Interroga senza lasciare scampo. È con tutta evidenza facile, troppo facile, dirsi: io mi sarei fermata, fermato. Io sì che l’avrei aiutata. E se non avremo mai una risposta netta, sicura, proprio l’inquietudine che ne viene può essere lo stimolo per affrontare il nodo cruciale. Cosa occorre fare, per aiutare le donne in pericolo?
Le leggi ci sono, per aiutare le donne. Non ci sono i finanziamenti. I posti letto, nelle case in cui le donne possano rifugiarsi, sono troppo pochi. E la rete dei centri antiviolenza non ha il sostegno sufficiente. Ma la storia di Sara insegna che il pericolo non è solo nelle coppie che vivono insieme. Occorrono altri strumenti. Insegnare, per esempio, ma soprattutto convincersi, che la gelosia non è un segno sicuro dell’amore. È geloso, quindi mi ama, quindi ci tiene a me, mi dà valore. Un geloso è uno che considera la donna roba sua, non tollera la sua libertà. Le ragazze devono essere educate a capirne il pericolo, i ragazzi a non farne una questione di identità: sta con me quindi deve fare quello che voglio io. E frequentare solo me.
Sembra assurdo dover scrivere questo, su questo giornale, nel 2016. Eppure non molto è cambiato, nell’educazione sentimentale dei maschi, negli ultimi decenni. E nell’educazione collettiva. Tanto è vero che a scrivere, a commentare, siamo prevalentemente noi, le femmine della specie. Non c’è molto di nuovo nell’insegnare alle bambine a fare attenzione, a non fidarsi dei maschi. Non è quello che si è sempre tramandato? È vero che la parità, il sentirsi uguali può avere reso le ragazze più ingenue o meglio più incredule, non si può pensare che quel ragazzo che in fondo fa la mia stessa vita possa trasformarsi, farmi del male. Ma non è un problema delle donne, la violenza degli uomini.
È che ci vuole coraggio. Molto coraggio a essere uomini, oggi. Rinunciare ai confini certi di un’identità di genere consegnata dalla tradizione. Il possesso delle donne, di una almeno, era garantito da quella formazione sociale che chiamiamo patriarcato a ogni uomo, anche il più miserabile. Un sistema sgretolato, ma ancora forte nel produrre immaginario sociale, magari condito dal rancore venato di vittimismo. Basta leggere i social, dove si discute violentemente l’idea stessa dell’esistenza del femminicidio. Parola sgradevole e necessaria. Ciechi di fronte alla traccia di sangue, che giorno dopo giorno dice degli effetti dell’odio violento per le donne.