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Sara Spanu
Sacro GRA: lontananze metropolitane
26 Novembre 2013
Libri da leggere
«Il documentario vincitore del Leone d'Oro è un'esplorazione raffinata del paesaggio extraurbano contemporaneo, una testimonianza sottile e non giudicante degli esiti prodotti dall'occupazione crescente di territorio da parte del sistema della circolazione automobilistica»

«Il documentario vincitore del Leone d'Oro è un'esplorazione raffinata del paesaggio extraurbano contemporaneo, una testimonianza sottile e non giudicante degli esiti prodotti dall'occupazione crescente di territorio da parte del sistema della circolazione automobilistica»

Ammetto di essere fraquelli che vanno al cinema conoscendo volutamente solo il titolo delfilm. Così è stato anche per Sacro GRA, sebbene il conferimento del“Leone d'Oro 2013” abbia fatto in modo che si parlasse di questodocumentario e, volente o nolente, se ne svelassero alcuni contenuti,ovvero storie di vita legate al grande anello stradale che abbracciala città di Roma. Alla fine del film, in realtà, le storie e levicende hanno raccontato anche molto altro.

Sacro GRA èun'esplorazione raffinata del paesaggio extraurbano contemporaneo,una testimonianza sottile e non giudicante degli esiti prodotti daquel processo di sviluppo che ha caratterizzato molte città europeedalla fine del secondo dopoguerra e che molto ha a che vedere conl'occupazione crescente di territorio da parte del sistema dellacircolazione automobilistica. Si tratta di esiti che dal punto divista sociale sono coincisi diffusamente con un allontanamentoprogressivo delle popolazioni più vulnerabili dai contesti urbanipiù tradizionali e il radicalizzarsi di meccanismi di segregazione eautosegregazione spaziale come risultato ultimo di una mancatacapacità di governo delle trasformazioni in atto.

Sotto questo profilo, lascelta di Gianfranco Rosi di fissare lo sguardo sulla quotidianitàdi esistenze assai eterogenee restituisce una varietà di narrazioniche si sono sedimentate nel tempo attorno al grande raccordo anularee che, al contempo, appaiono piuttosto simili nel trasmettere unsenso di solitudine ed emarginazione. Così, ad esempio, un occhiosilenzioso spia il trascorrere di un'intera giornata fra le paretidei mini alloggi di edilizia popolare, costruiti evidentemente nelleimmediate vicinanze del principale aeroporto italiano, visto ilcontinuo passaggio di aerei a bassa quota che con il loro frastuonospezzano sequenze di lunghi silenzi, interni ed esterni.

La città con i suoirumori e il suo caos è , in uno sfondo a sé stante chepoco interagisce con il qua, se non come mero punto diriferimento paesaggistico: Guarda che spettacolo,dice Paolo, laggiù c'è il Cupolone. Certo che il Cupolonesi vede proprio dappertutto eh! Guarda, laggiù. Ma c'è anche laprospettiva rovesciata, di chi questi spazi li vive stando fuori e netrae il proprio sostentamento, come nel caso di Cesare, pescatore dianguille da generazioni, che nella sua piccola casa sulle sponde delTevere apprende la notizia di nuovi esperimenti per l'allevamentodelle anguille: Stamo in mano proprio a gente che ce capisce pocoe pochissimo. Però a noi che stamo una vita dentro l'acqua nun ceinterpellano mai, nun je 'mporta mai a nessuno .. che dici te? Vabene così? Ma annamo avanti, ma che ci frega. Tu continui a tagliàe a cucì [le reti], te chiameremo Penelope!”, ridendo.In realtà l'acqua di cui parla Cesare può essere assunta anche comemetafora del nostro habitat quotidiano rispetto al qualel'essere esperti in quantocittadini appare sempre meno un requisito per essere coinvolti eincidere nei processi urbani.

Rosi accompagna lospettatore pian piano alla scoperta di un'articolazione urbana fattadi individualità o al massimo di interazioni a cortissimo raggio.Non si riesce a percepire una qualche dimensione pubblica della vitasociale in quegli spazi: non sarà casuale probabilmente la rapidapanoramica che il regista effettua su una piazzetta in cui alcunibambini giocano e si fa festa. Unico momento di fruizione collettivadegli spazi, di riconoscimento reciproco, seppur sempre all'internodi nicchie ben definite.

Nel guardare Sacro GRA siha l'impressione di calarsi nei panni del Robert Maitland,protagonista della narrativa ballardiana, quando a causa delloscoppio di un pneumatico sfonda con la sua Jaguar un tratto delguardrail lungo la M4 londinese, schizzando fuori dai circuiti edalle routine della città, di cui simbolicamente la strada e, inprospettiva metropolitana, l'autostrada, ne sono l'emblema, perimmergersi in un mondo fatto di situazioni paradossali e personaggieccentrici. Gianfranco Rosi compie un'operazione analoga: la Londradi Maitland è laggiù,esattamente come la Roma di Paolo e Cesare, non così distantifisicamente, eppure costantemente avvolte in un'aura di immanenza, disacralità mai messa in discussione. Sono presenze che appena sipercepiscono nel fluire della narrazione, così come di scarsoimpatto appaiono le vite di alcuni dei protagonisti negli avvenimentidella metropoli contemporanea: esistenze pressoché invisibili,dunque, probabilmente complicate da comprendere agli occhi di chi stadall'altra parte (anche dello schermo) e per questo di stimolo permeditare, al di là dei titoli di coda.

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