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Luciana Castellina
Rompere il silenzio
8 Gennaio 2009
Articoli del 2009
Un appello contro la rassegnazione. Per chi è a Gaza, ma anche per noi stessi e la nostra dignità di uomini. Da il manifesto, 8 gennaio 2008 (m.p.g.)

Appena lanciato un appello che denuncia il massacro di Gaza- quello promosso a caldo da Acli,Arci, Lega Ambiente - le adesioni sono arrivate subito e a migliaia. Così già avviene per il documento più elaborato proposto ora dalla Tavola della Pace (che aggrega un arco di associazioni anche più esteso, con la convocazione di una appuntamento ad Assisi il prossimo 17) e che invita all'azione e ad una riflessione strategica. Vuol dire che la gente ha voglia di schierarsi, di esprimere il proprio sdegno, di fare qualche cosa almeno per far cessare il fuoco e ottenere il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia. E infatti una serie di iniziative locali stanno partendo un po'ovunque.

E tuttavia non possiamo non rilevare che fino ad oggi la risposta dell'Italia democratica è stata del tutto inadeguata rispetto all'enormità dell'attacco. Tanto più stridente in Italia, il paese dove la protesta è stata finora più limitata, e dove invece tradizionalmente la questione palestinese era stata sempre molto sentita da un'opinione pubblica assai vasta. Questa volta sono stati invece soprattutto i direttamente colpiti - i palestinesi e gli arabi immigrati - ad animare le manifestazioni, in una dolorosa solitudine, accompagnati da qualche insensato incendio di bandiere.

Non possiamo non chiederci seriamente perché. Ancora fino a pochi anni fa, quando l'Iraq fu aggredito, la reazione fu vasta e forte, coordinata a livello mondiale. Non è così oggi.

E' troppo facile rispondere che dipende dal fatto che i movimenti non ci sono più, che le forze messe in moto dai Forum sociali sono ormai cosa del passato, inghiottite dal berlusconismo. Certo, un indebolimento indubbio c'è stato, anche una vera involuzione politico-culturale. Ma se oggi nessuno scende in piazza come prima è soprattutto perché da molto tempo il movimento non solo non vince, ma non ottiene alcun riscontro politico. Non dal governo, e - che è ancora più grave - nemmeno dalle forze che dovrebbero essere di opposizione. Il senso di inutilità della lotta produce inesorabilmente paralisi, disimpegno. Rassegnazione e casomai solo la rabbia dell'impotenza, o sfogo nell'agorà virtuale del web che certo ha un suo peso, ma non è, non può essere, sostitutiva della mobilitazione fisica.

Che fare, allora? Il segnale che viene da queste giornate di relativo silenzio è preoccupante ben al di là della vicenda di Gaza. Indica ancora una volta quanto profonda sia oramai la crisi politica, la sfiducia nella politica. Quanto forte sia ormai l'antipolitica.

Pensare di risolvere il dramma mediorientale ormai incancrenito con qualche corteo in effetti appare a tal punto irreale che si capisce come non si abbia voglia nemmeno più di provarci. L'atonia delle forze politiche crea un vuoto che fa passare a tutti la voglia di scuoterle.

E tuttavia bisogna reagire. Vi sembrerà patetico questo richiamo al volontarismo e forse lo è. E però ci sono alcune fondamentali ragioni per cui occorre farlo: perché se lasciamo i palestinesi soli, e con loro chi condivide quel disgraziato territorio mediorientale, non faremo che accendere ancor più la tentazione di atti disperati, una tendenza del resto già sempre più diffusa; perché lo dobbiamo anche a quel drappello di coraggiosi israeliani che si stanno ribellando alla politica del loro governo e che sarebbe tragico se lasciassimo senza eco.

E perché anche se non saranno le nostre manifestazioni a sciogliere il nodo israelo-palestinese, dichiararsi a priori impotenti equivale a far passare la tendenza più pericolosa: quella che consiste nel sostenere che non c'è ormai più soluzione.

So che le parole appaiono ormai tutte vane. Ma per difficile che sia occorre continuare a dire almeno una cosa: che con questa politica Israele si condanna a una prospettiva senza pace, perché ogni vittoria strappata con il sopruso della forza militare verrà pagata duramente con l'insicurezza permanente, perchè la diffusione del terrorismo sarà incontenibile e così l'odio di coloro che abitano la stessa regione nella quale il popolo israeliano ha deciso di vivere. Serve a spingere gli stessi palestinesi, di cui pure è comprensibile una politica spesso dettata dalla disperazione, a ricercare strade più efficaci per la propria liberazione. Serve a noi - la sinistra- per ricostruire la nostra soggettività, ridare senso ai nostri valori, per non sentirci vermi che strisciano a terra schiacciati dai potenti. Vorrei aggiungere: a non doverci vergognare.

Nel frattempo al Tg1 Gaza è già passata terza notizia, preceduta dal dramma dei milanesi con la neve e degli europei minacciati di dover ridurre il riscaldamento. È naturale: il dramma dei palestinesi è ormai minore, camion delle Nazioni unite possono infatti transitare per tre ore per andare a soccorrere i sopravvissuti (pochi) dell'ultimo bombardamento che dell'Onu ha distrutto una scuola. Allo scadere del termine, non un minuto di più, le bombe ricominceranno a cadere, ma domani - state tranquilli - potrà passare nuovamente chi va a raccogliere i feriti e i cadaveri che nel frattempo quelle bombe hanno mietuto.

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