Una puntuale recensione all'ultimo lavoro di Francesco Erbani dedicato al degrado urbanistico e non solo della Capitale, governata da una classe dirigente storicamente inadeguata al livello dei problemi, e oggi preda della cultura liberista egemone
La Roma che si presenta oggi alla nostra osservazione e per tanti di noi all'esperienza quotidiana della vita vissuta, costituisce un vasto e multiforme laboratorio in cui verificare, sulla base di prove storiche, di ambiti e materiali direttamente osservabili, il fallimento indiscutibile di una stagione del capitalismo italiano. E non solo. Nelle sue strutture materiali come nel clima della vita civile, si può leggere il rendiconto, con poche luci e con molte ombre, di un gruppo dirigente cittadino che ha incarnato a modo suo, ed entro le specifiche smagliature della tradizione urbanistica italiana, la cultura neoliberista trionfante negli ultimi due decenni. Una cultura interpretata, ovviamente, con varie gradazioni dai partiti e gruppi dirigenti romani, ma pur sempre unico orizzonte prospettico per l'intero ceto politico. Roma mostra oggi, con i suoi innumerevoli problemi irrisolti, con le sue confuse e oscure prospettive, quanto l'affidare gli spazi che per ragione storica fondativa sono pubblici e comuni– quelli appunto della Città - ai liberi e sregolati appetiti dei privati conduce ad esiti di ingovernabile disordine urbano e sociale.
Quanto affermo ce lo mostra oggi limpidamente Francesco Erbani nel suo Roma. Il tramonto della città pubblica, Laterza Roma-Bari 2013, pp175, euro 12. Il testo, scandito in 8 capitoli, affronta e rende comprensibili anche al lettore non esperto i grandi nodi urbanistici, ambientali, sociali, in cui la città si dibatte. E lo fa con un taglio elegante di saggistica, che è insieme una scelta di conoscenza condivisa, di esplorazione dal vivo insieme a gruppi di cittadini romani, che non solo vivono i problemi del proprio quartiere, ma ne studiano le ragioni, le conseguenze, le soluzioni possibili. Si tratta di « quel vasto fronte dei comitati di cittadini, di gruppi e associazioni che producono una mole imponente di indagini sul proprio quartiere e che avviano vertenze per salvaguardare quel che appartiene a una collettività e che invece si vorrebbe alienare a vantaggio di pochi.» Ma quel che è paradossale è che tale mole volontaria di ricerca, di studi, in cui operano anche valenti professionisti, ha come controparte « quasi sempre il pubblico che smette di fare il pubblico, sono l'amministrazione e l'ente che si sottraggono al compito di tutelare interessi generali.»
Erbani dunque racconta i problemi di Roma attraverso le associazioni che operano a Corviale, oppure tramite le interviste ai promotori dell'Osservatorio Casilino, che difendono un' ampia area di pregio paesaggistico ( e di memorie pasoliniane ) dai progetti edificatori di Alemanno; oppure i cittadini di No Corridoio, che da anni sono in mobilitazione contro il progetto di Corridoio Tirrenico destinato a tagliare vasti territori, dalla Roma.Fiumicino-Civitavecchia per arrivare a Latina. Ma naturalmente Erbani ascolta il parere esperto di urbanisti e docenti, da Paolo Berdini a Giovanni Caudo, a Vezio de Lucia. Non si creda, tuttavia, che Roma sia un semplice assemblaggio di interviste: il testo è sorretto da una solida e invisibile intelaiatura storico-urbanistica, che compare di tanto in tanto, con leggerezza e senza apparati, nei nomi di Italo Insolera o Leonardo Benevolo, di Ludovico Quaroni o Antonio Cederna. Solo per ricordarne alcuni. Tanto più che il testo spiega con sguardo storico come sono sorti e diventano irrisolvibili i problemi di una città nella quale, da decenni, la rendita fondiaria di alcuni gruppi privati ispira le linee direttrici della sua espansione.
E tale sguardo storico mostra una cesura politica importante, a partire dagli anni '90, quella che segna l'abbandono, da parte del ceto politico, dell'urbanistica come progetto “pubblico” , piano di sviluppo della città secondo gli interessi collettivi. Fiorisce allora, come nel resto d'Italia, l'urbanistica “negoziata”, che rifiuta i piani regolatori e disegna la crescita della città quale risultato di accordi e scambi tra l'amministrazione pubblica e i privati, quasi sempre grandi proprietari di suoli. Se l'amministrazione ha bisogno di costruire opere pubbliche scambia con i privati tale investimento, concedendo ad essi il permesso di edificare sulle aree possedute. Per la verità sono stati quasi sempre i privati a suggerire al Comune cosa e dove costruire. E l 'amministrazione ha perso( anche per questo) ogni visione coordinata dell'espansione dell'edificato. Ma è stato utile alla città tale scambio ? Il suolo è bene limitato, ed è un bene comune, nel senso che la sua occupazione con un edificio condiziona la vita della comunità dei cittadini: fa sparire il verde, attrae traffico veicolare, degrada la qualità dell'aria, ecc.
Ma anche l'edificabilità delle aree possedute dai privati è frutto di un grave scacco del potere e dell'interesse pubblico. Esso dipende in parte da un caratteristica del nostra giurisprudenza, che non ha saputo separare – come accade in altri paesi d'Europa - il diritto di proprietà dallo jus aedificandi. Ma, come ricorda Erbani, sulla scorta di Edoardo Salzano e Vezio de Lucia, l'edificabilità di alcuni suoli a Roma è sancita dal Piano Regolatore del 1962, quando la situazione storica era radicalmente differente da quella attuale, allorché ci si attendeva un'ampia crescita demografica e si era dominati da una cultura sviluppista che ignorava alla radice la stessa nozione di ambiente. Così la città è venuta espandendosi disordinatamente nella campagna trascinando con sé traffico veicolare diffuso e caotico. Un'espansione lasca che impedisce oggi i collegamenti in ferro, troppo costosi per far spostare una popolazione rada e dispersa.
Le cifre che Erbani fornisce delle linee di metropolitana di altre capitali ci fanno semplicemente arrossire: Roma, in km di linee ( 41,5), è superata non solo dalle grandi città europee, ma perfino da Bucarest (70 km) da Atene ( 55 km) da Teheran (140km). E' perciò abbastanza conseguente che la città abbia ben 978 veicoli a motore ogni 1000 abitanti, comprendendo fra questi i neonati e i novantenni. Un traffico che è ragione di scarsa mobilità e di infelicità del vivere cittadino. Ed esso non risparmia neppure il centro storico, nel frattempo ridotto a un caotico suk da un turismo predone lasciato alla sua sfrenatezza consumistica. Ma la Roma che cresce sulla base degli interessi privati cova nel suo seno altre contraddizioni insanabili. Circa 193 mila case sfitte al censimento del 2001( oggi sarebbero 250 mila) a fronte di oltre 30 mila famiglie che non hanno un tetto. E il sindaco uscente, che continua a suo modo la tradizione “liberale” di Rutelli e Veltroni, vorrebbe imporre altri svariati milioni di metri cubi a una città ormai deforme. Fino a quando gli uomini e le donne che animano i circoli e i comitati nei territori non diventeranno classe dirigente della capitale, la speranza che Roma riacquisti un'idea di sé e del proprio futuro è alquanto esile.
Questo articolo viene inviato contemporaneamente al manifesto
. Su questo sito abbiamo pubblicato l'introduzione dell'Autore al volume, che ci è stata cortesemente inviata in anteprima