I criteri surrettiziamente introdotti sono quelli dell’età (i minorenni soli, ma non quelli che hanno un fratello a bordo), del genere (le donne, specialmente se incinte o accompagnate da bambini in tenera età), o appunto delle condizioni di salute (ma con riserve, soprattutto quando il problema riguarda la sfera psichica, e non è quindi facilmente diagnosticabile).
Uno scivolamento analogo si constata nel ricorso ad altri due argomenti anti-accoglienza abbondantemente utilizzati dalla rumorosa propaganda nazional-populista, di fronte ai quali i difensori dei diritti umani mostrano spesso un certo imbarazzo. Uno è il preteso benessere dei richiedenti asilo, dotati –si dice– di cellulari ultramoderni, catenine d’oro e monili vari. Anche in questo caso, i rifugiati dovrebbero far compassione per essere accolti, recitare la parte dei miserabili privi di tutto per suscitare la nostra pietà. Altrimenti non sarebbero meritevoli di accoglienza.
Riecheggia la perniciosa idea che la causa delle migrazioni in generale sia la povertà assoluta, la fame, l’incapacità di provvedere a se stessi, ma l’idea è ancora più sbagliata quando si tratta dell’asilo: un tempo i rifugiati in Europa erano soprattutto persone colte, intellettuali, artisti o voci dissenzienti che appartenevano alle élite dei Paesi di origine.
L’asilo, e a maggior ragione il soccorso in mare, non è motivato dalla povertà e neppure dalle condizioni di salute, ma è un diritto umano motivato dalla vulnerabilità delle persone interessate, dai rischi che correrebbero se non venissero prima soccorse e poi almeno provvisoriamente accolte. L’altro deprecabile ma insistente argomento polemico indirizzato contro chi si espone a favore dell’accoglienza, specie quando si tratta di persone note al grande pubblico, chiama in causa il loro impegno diretto nei confronti dei rifugiati: “Quanti ne accogli a casa tua?”.
L’ultimo bersaglio in ordine di tempo è stata l’attrice Luciana Littizzetto, che ha peraltro saputo rintuzzare l’attacco sulla base di un encomiabile curriculum di impegno sociale. Di nuovo però, la logica sottostante rivela la sostituzione della compassione ai diritti umani: se ti fanno tanta pena, accoglili tu, con i tuoi beni e sopportandone il presunto disagio. È come se, di fronte a chi chiede più attenzione ai malati o alle persone con disabilità, si rispondesse di provvedere a loro con le proprie sostanze. Surrettiziamente si abbandona la logica dello Stato sociale, chiamato a rispondere alle varie necessità – incluse quelle umanitarie – redistribuendo le risorse raccolte con il prelievo fiscale, per tornare a forme di carità discrezionale.
Di fronte a questo deterioramento della cultura civile oltre che giuridica – che su queste pagine si è continuato per un verso a denunciare e sottolineare e per l’altro a contraddire di speranza e buon diritto indicando esempi positivi e buone pratiche– sorge spontanea una richiesta: se davvero si formerà un nuovo Governo, improntato a una visione politica ben diversa dal Governo precedente, ponga tra i suoi primissimi atti un ripristino dell’impegno del nostro Stato nella tutela dei diritti umani.