In un libro di Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini, "La sinistra e la città", un utile contributo alla riflessione sul cuore antico di un possibile futuro. “Città e città”, blog de l’Unità on line, 1 marzo 2013
C’è chi dice: territorio bene comune. Paesaggio, centri storici, edilizia dignitosa, diritto all’abitare, ambiente e trasporti “fanno” la qualità delle città italiane. Dopo anni di deregulation selvaggia – complice buona parte della classe dirigente italiana – è il momento di invertire rotta. Lo suggerisce il libro di Roberto Della Seta e Edoardo Zanchini La sinistra e la città. Dalle lotte contro il sacco urbanistico ai patti con il partito del cemento (Donzelli, gennaio 2013, pp. 97, 16 euro). Che rimette a fuoco parole e idee dimenticate. L’urbanistica, ad esempio: se negli anni 50 è stata il cuore dello scontro politico, oggi sembra solo il campo di battaglia di corruzione e tangenti. Di semplificazione in semplificazione, l’idea della pianificazione sembra un inutile orpello se non addirittura il mezzo attraverso cui far passare le mazzette. Invece no: scardinati i piani regolatori, consentiti abusivismi e speculazioni, le tangenti hanno ripreso a correre più vispe che mai. E per forza, nascono dall’abitudine “di tanti che amministrano l’urbanistica a vedere le proprie scelte come il frutto obbligato ed esclusivo di trattative opache, quasi segrete, con i grandi interessi privati”.
Non è una deriva inesorabile. Tra i protagonisti della battaglia contro le speculazioni su Roma (prima attrice l’Immobiliare del Vaticano) fu Aldo Natoli, allora autorevole dirigente del Pci, in alleanza con i migliori uomini dell’azionismo, capaci di raccogliere l’eredità culturale di Leonardo Borgese: Antonio Cederna e Leone Cattani, Adriano Olivetti e Antonio Iannello, Elena Croce e Umberto Zanotti Bianco, Pietro Bucalossi e Giuseppe Galasso. A rileggere oggi il Sacco di Roma di Natoli, compaiono tutti i protagonisti delle speculazioni fino al nostro secolo, dall’arroganza dei costruttori alla centralità delle banche, all’impudenza degli speculatori fondiari. Perché lì, nell’uso del suolo, è il problema, e mica solo a Roma. In quelle battaglie – che ebbero gran eco nella base del Pci ma non furono troppo apprezzate ai suoi vertici – c’erano tutti gli elementi per una moderna visione urbana. Il diritto alla casa, che allora portava in piazza masse di esclusi, oggi rintanati nei ghetti o nel sovraffollamento indecoroso. La proprietà dei suoli e la commistione tra proprietà fondiaria e costruttori che indirizza il costruire, e non certo nell’interesse comune. La morsa delle banche, il cui protagonismo era ieri diretto e oggi agisce con la finanziarizzazione dell’edilizia. Ultimo, ma non per importanza, lo sfruttamento selvaggio nei cantieri, anche se oggi ha cambiato nazionalità: ieri erano edili gli immigrati dal sud d’Italia, oggi vengono dal sud del mondo.
L’opposizione, allora, vinse alcune battaglie: lo sventramento del cuore di Roma, la salvaguardia del verde. Fu invece sconfitta l’”illusione riformista” che ebbe a protagonisti i ministri Sullo, Mancini, Bucalossi e poi anche Galasso. Clamorosa quella di Sullo, che proponeva ai comuni l’esproprio di tutte le aree edificabili e la messa all’asta una volta eseguite le urbanizzazioni primarie, consegnando così alla mano pubblica la decisione di dove e cosa costruire. Una campagna violenta, intollerante e omofoba fece uscire di scena lui e una legge moderna e civile. Tra le altre leggi innovative dell’epoca – alla cui stesura contribuirono persone come Vezio De Lucia, Fabrizio Giovenale, Antonio Iannello, Edoardo Salzano – purtroppo disinnescate, la Bucalossi (che separava nettamente il diritto alla proprietà da quello a costruire), la legge sulla casa e quella sull’esproprio delle aree per l’edilizia popolare.
Poi la rottura. La questione dell’abusivismo, cavalcata da una parte del Pci (Lucio Libertini e il sindaco di Vittoria) e avversata da un’altra, capeggiata da Piero Della Seta. Segnale, scrivono gli autori, di una transizione postideologica: tanto più si indeboliva il “valore della propria diversità non solo politico e ideologica ma etica, tanto più si andava strutturando un rapporto più pragmatico e spregiudicato con la società e l’economia: un rapporto nel quale assumevano uno spazio e un peso crescenti legami di scambio politico-elettorali con gli interessi sociali ed economici, fossero gli abusivi siciliani o i poteri economici coinvolti nel business immobiliare”. Difficile non ricordare, appunto, la Fiat Fondiaria, a Firenze.
E oggi? Oggi che la deregulation è cosa fatta, grazie agli anni berlusconiani ma anche agli errori del campo riformista, le città restano preda di contraddizioni evidenti: l’eredità dei condoni, un forte bisogno di abitazioni popolari, un forte stock di case invendute, lo sgonfiamento della bolla immobiliare. In più, la sciagurata abolizione dell’obbligo di reinvestire i proventi delle concessioni edilizie in urbanizzazioni ha spinto i comuni, nell’era dei tagli generalizzati, a usarle per far cassa, con ulteriore e evitabile consumo di territorio. A Roma si fa il peggio destinando all’housing sociale addirittura le aree agricole, e finanziando con un’ulteriore pioggia di cemento le metropolitane.
Non si tratta solo di ordine urbanistico. La questione è di giustizia, se non si vuole escludere in ghetti insicuri e precari una buona fetta di società. Ecco le proposte di Della Seta e Zanchini: fare delle città cantieri di riqualificazione, spezzare il legame identitario tra oligopolisti delle aree e autori della trasformazione. Mettere in sicurezza idrogeologica e antisismica il territorio, con al centro di ogni trasformazione la qualità architettonica e l’efficienza energetica. Prendere in mano le orrende periferie di questi anni, ristrutturandone servizi e trasporti pubblici. Ripensare al valore della bellezza. Basterà?