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Angelo d'Orsi
Riprendiamoci il diritto alla città
9 Marzo 2015
Città quale futuro
Dalla Cavallerizza a Torino ai "Cantieri che vogliamo" a Palermo, dal Teatro Marinoni a Venezia al cinema Palazzo a Roma, rinasce forse in Italia un movimento, per decenni sopito, di riappropriazione degli spazi pubblici: una vicenda da ricordare.

Dalla Cavallerizza a Torino ai "Cantieri che vogliamo" a Palermo, dal Teatro Marinoni a Venezia al cinema Palazzo a Roma, rinasce forse in Italia un movimento, per decenni sopito, di riappropriazione degli spazi pubblici: una vicenda da ricordare. Micromega, newsletter 9 marzo 2015

A Torino gli spazi della Cavallerizza Reale sono stati occupati contro la minaccia di cartolarizzazione e privatizzazione. E sono diventati immediatamente un luogo di ritrovo e di cultura. Al termine di tre giorni di manifestazione, che segnano una tappa importante dopo nove mesi di occupazione, Angelo d’Orsi ha fatto questo intervento.


1. Il diritto alla città, nasce, in Italia, nel II Dopoguerra. La guerra nazifascista, e la guerra degli Alleati, avevano ridotto il paese a un campo di macerie, in senso proprio, e anche in senso figurato. Più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; cancellati un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città.
La politica dei governi democristiani, dopo il 1948, fu all’insegna di una accoppiata terribile: liberismo e clientelismo, proprietà privata e assistenza pubblica, ossia profitti per i padroni, costi per la collettività. La ricostruzione privilegiò l’edilizia privata, ovviamente, e l’industria manifatturiera: si trascurò colpevolmente l’edilizia pubblica, e si procedette a casaccio, in base a interessi di clientele, a pressioni locali, solo alla ricerca del profitto, senza nessun riguardo per gli spazi urbani, per i luoghi, per la storia, per gli ambienti, per il paesaggio. Anzi, offese quasi sempre lo spirito dei luoghi, il genius loci, mentre, nel contempo, si mettevano da parte, in nome della “fretta” e della “necessità” (esigenze certo legittime), i piani, i progetti, i disegni di insieme. Le compatibilità ambientali e la memoria storica. I flussi migratori interni, dal Sud al Nord, e in minor misura da Est a Ovest, cambiarono la fisionomia delle città; con problemi, difficoltà, disagi per tutti.

Ma soprattutto si sconvolse il volto di città già piagate dai bombardamenti: la ricostruzione fu selvaggia. E la scelta del trasporto su gomma, il privilegiamento del trasporto privato, la folgorazione dell’automobile velocizzò tutto, ma congestionò le città, e ne snaturò l’anima. Gli spazi dell’agorà, essenza della polis, furono vilipesi, maltrattati. E scendere in piazza, sulla base di un Codice penale che era ancora quello fascistissimo di Alfredo Rocco, fu comunque, a lungo, per tutti gli anni 50 un reato potenziale. Ci pensava la Celere, dopo le estenuanti attese per un’ “autorizzazione” della Questura. Si toccò con mano il divario tra la legge (la Costituzione) e la sua “applicazione ; sulla base di leggi subordinate, ma le sole in realtà in atto. I Codici! CP e il micidiale Testo Unico delle Leggi di PS.

Ma accanto gli squilibri interni, emergeva il divario tra centri e periferie urbane. La letteratura e l’arte si mostrarono quasi sempre più sensibili della politica: abbiamo scoperto la realtà drammatica delle borgate romane grazie ai primi due romanzi di Pasolini, delle periferie milanesi grazie a Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Abbiamo capito la realtà della Speculazione edilizia grazie all’omonimo romanzo di Italo Calvino (1963) ambientato in Liguria, o al meraviglioso film denuncia su Napoli Le mani sulla città di Francesco Rosi, che è dello stesso anno. Esistevano, certamente, riviste accademiche che cominciavano a studiare quelle realtà, ma la classe di governo non le leggeva, e quando andava al cinema si accontentava del “divertimento”.

Il 1963 è pure l’anno in cui nasce il Centrosinistra, dopo il preludio dell’anno prima, il ‘62, che, nondimeno, è anche l’anno di Piazza Statuto a Torino: la più grande rivolta operaia dagli scioperi del ’43, nella città, probabilmente la più grande in Italia: una rivolta contro il sindacato padronale, una manifestazione di autonomia dei proletari che si riprendono gli spazi centrali della città, che riaffermano il proprio diritto a usarli, come palcoscenico, rivendicando l’identità tra polis e agorà; la città non può insomma essere considerata un mero spazio fisico, non è il dove abito, dove dormo, dove mangio, dove amo, dove soffro, 24 ore su 24; la città è, o deve essere, soprattutto il luogo politico, simbolico, culturale, antropologico, estetico che dà spessore e senso non tanto alla esistenza del singolo, quanto alla con-vivenza: che è la base della politica. Platone docet! Ma il singolo può vivere in solitudine? È così beata la solitudo?!

La città è la risposta. E l’elogio della solitudo viene sempre da chi non ha il problema dell’essere solo. La città che invece il capitalismo della Repubblica nata dalla Resistenza stava costruendo era un posto sempre più invivibile, sempre più caotico, sempre più deprivato di senso.

2. Ma esistevano eccezioni. Furono due ministri, “moderati”, il leader repubblicano Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, che introdusse in concetto della Programmazione economica, che aveva come obiettivo ridisegnare lo sviluppo del Paese, e dunque anche delle aree urbane, superare gli squilibri (economici, demografici, culturali…), e il democristiano di sinistra Fiorentino Sullo, che si pose in testa, e cercò di far entrare in quella dei suoi compagni di partito, la necessità e l’urgenza di riformare il modello di crescita delle città; fu un politico intelligente e coraggioso che leggeva e che aveva capito l’importanza della questione, anche sulla base degli studi dell’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica, dove operavano i maggiori intellettuali del settore. Ovviamente la sua riforma fu bocciata: si parlò di comunismo, naturalmente.

Ma da tanta parte la questione veniva riproposta, e se non venne accolta a livello nazionale cominciò ad essere accolta a livello territoriale, provinciale e comunale, e poi, dal 1970, regionale. La città non poteva essere la giungla, e occorreva cominciare se non a privilegiare, almeno a tener conto degli interessi generali, ma fu spesso, una lotta vana, anche se non mancarono risultati positivi,che non vanno sottovalutati.

Ma nel 1966, l’alluvione di Firenze (e una “anomala” acqua alta a Venezia, la più grave mai verificatasi, esattamente nello stesso giorno, il 4 novembre, paradossalmente “festa della vittoria”) resero drammatica l’urgenza di un cambio di rotta. Il ‘68 era alle porte, per fortuna, dobbiamo dire: anzi il ‘68/69. È un errore isolare il primo anno: in Italia, diversamente dal resto dei Paesi coinvolti dalla contestazione, ci fu una sostanziale, forte alleanza studenti/operai. E la città divenne il luogo dell’azione. Torino fu l’epicentro, grazie alla Fiat, e al suo bando per l’assunzione di trentamila nuovi operai, ovviamente provenienti dal Sud. Con tutti i problemi che al Nord come al Sud questo avrebbe procurato, e che in effetti procurò: perdita di energie giovanili, rinuncia a politiche di occupazione nel Mezzogiorno, costi sociali enormi per l’amministrazione cittadina, problemi di adattamento, situazioni abitative precarie, a Torino. Gli assunti andavano a vivere in baracche! O in forme di coabitazione allucinanti. Come i migranti non italiani di oggi. Nihil sub sole novi.

Soprattutto va notato che per la prima volta la lotta non richiamava solo obiettivi tradizionalmente, vorrei dire esanguamente“politici”, ma sostanzialmente, politici, riguardanti la polis in tutte le sue problematiche. Come ha scritto Edoardo Salzano:

«I fatti di Torino, gli altri scioperi in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle occupazioni di alloggi (e dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi i cui canoni d’affitto erano bloccati ai valori di prima della guerre) ponevano in primo piano la necessità di una nuova politica della casa. L’autunno del 1969 fu il momento più alto del conflitto: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata» (La città come bene comune, in Historia Magistra. Rivista di storia critica”, 8/2012).

Proprio “diritto alla città” e “diritto alla casa” divennero motti diffusi del nuovo movimento: i diritti dei lavoratori non potevano essere scissi dai diritti dei cittadini, che vivevano, appunto, in spazi urbani, nel ventre della “città” che dunque si fondeva in qualche modo con la fabbrica: non nel senso negativo della città fabbrica di tanta letteratura (narrativa o sociologica), ma nel senso invece positivo di un’azione che rivendicasse unitariamente il diritto a essere lavoratore non super sfruttato e cittadino non vessato, compresso, negletto: la lotta investiva dunque il padronato, il sindacato acquiescente, i partiti che avevano coperto la situazione, le amministrazioni locali acquiescenti, i governi e i loro strumenti repressivi. E i media protagonisti negativi di quella stagione, complici della repressione.
La città dunque diventava l’oggetto della posta in gioco tra due forze contrastanti: il movimento, più o meno sostenuto dalle organizzazioni politico-sindacali della sinistra, da un canto, che rivendicava la città come “casa della società”, come bene comune, anche se allora l’espressione non era in uso; dall’altro il blocco sociale edilizio-finanziario, con ampia rappresentanza politica, che perseguiva unicamente i propri interessi economici. La tensione che ne seguì, con gli attentati, le provocazioni, i morti, i feriti, fu espressione anche di questo scontro. Non è un caso che i momenti più terribili di quella stagione, che giunge fino ai primi anni Ottanta, si collochino nei luoghi topici, dell’aggregazione urbana: le piazze, le stazioni. Milano, Brescia, Bologna, ci dicono anche che quello scontro si materializzava prima di tutto nelle aree a maggiore sviluppo urbano, a più alta rendita fondiaria.


3. Tutta questa è storia passata: ma stiamo meglio, oggi? Oggi, a partire dalle avvisaglie del decennio craxiano, passando per il ventennio berlusconiano, stiamo vivendo i primi passi di una filosofia politica all’insegna dell’ultracapitalismo da una parte, del neoliberismo dall’altro. E per quanto riguarda il nostro tema, la città ci viene presentata come il baluardo della fusione tra capitalismo selvaggio e liberismo come unico orizzonte di senso del presente, e del futuro. Al Politecnico di Milano si è lanciato lo slogan, da parte di qualcuno, della “città del liberalismo attivo”: aberrante perché il liberalismo è la dottrina della libertà individuale. Che viene intesa essenzialmente, prima di tutto, come libertà di commercio, di impresa, di profitto: senza regole, senza ”lacci e lacciuoli”. E ciò nella tragica assenza di una opposizione, se non per frammenti convulsi, per ipotesi confuse, per aggregazioni fallimentari, per continue ulteriori disaggregazioni.

Eppure, malgrado la morte della sinistra, una nuova opposizione sociale, diffusa, fuori dai partiti, si è andata materializzando, nell’ultimo decennio, soprattutto, incentivata dalla crisi e dall’assenza di risposte ad essa, se non nell’interesse dei ceti privilegiati. Una opposizione che ci ripropone la piazza, non semplicemente come luogo di incontro e svago, dei traffici e del divertimento, dei commerci e delle esibizioni; ma come luogo di lotta. È il “ritorno dell’agorà”, ossia il ritorno della politica nel senso più alto e nobile, una politica dal basso, che rovescia le gerarchie, che rifiuta l’istituzionalizzazione, che vuole mettere insieme tutti i diritti, e dar vita a un progetto complessivo, “olistico”.

Si era già avviata, lentamente, nel corso degli anni e dei decenni, l’associazione tra azione politica e azione di intrattenimento, grazie specialmente alla musica, con alti e bassi, ossia con prevalenza dell’uno o dell’altro fattore, con la parziale eccezione degli Ottanta, anni mefitici in cui anche la piazza venne obliterata, quasi cancellata. Si sono manifestate forme di azione che comprendevano lo sberleffo, la gioiosità, l’espressione di ogni passione creativa, dalla danza ai giochi circensi. Era il diritto ad avere spazi per chi non intendeva accontentarsi delle gabbie politiche, culturali e anche di intrattenimento del “sistema”.

Talora il divertimento ha preso la mano alla politica, va detto: si pensi al “Concertone del Primo Maggio”, ma si pensi del reato alla stessa manifestazione ”ufficiale”. Talaltra si è costruito un vero progetto sociale complessivo, a partire, questo è un dato rilevantissimo, non sempre, tradizionalmente, dalle periferie, ma anche sovente dal centro, non sempre dalle fabbriche o dalle nostrane favelas, bensì dai luoghi della cultura: i teatri, i cinema, gli spazi dedicati alle forme artistiche.

Tutti luoghi e spazi che nella città neoliberista sono destinati alla privatizzazione: o dal “libero gioco della concorrenza”, dalla libera dialettica di domanda e offerta, ma sempre a partire da precise scelte o quanto meno da orientamenti netti degli amministratori locali e centrali. Le forze della sinistra ufficiale sono ormai del tutto interne alle logiche di una politica al servizio degli interessi finanziari, piccoli e grandi, europei o nazionali, e comunque ad essi subordinate.
Si può contare solo ogni tanto su un sostegno di questo o quello, ma la forza del cambiamento (non lo pseudo cambiamento delle “riforme” che hanno obiettivi diametralmente opposti a quelli che noi perseguiamo, e vanno contrastate duramente) viene dal basso, e dal basso vanno selezionate le élites, dall’agorà – reale virtuale, culturale – nel fuoco della lotta, di qualsiasi genere, va formata la leadership, non il contrario come avviene ora, in ogni partito e spesso anche nei movimenti che vorrebbero esser alternativi.

In questo generale ritorno dell’agorà, che abbiamo salutato con entusiasmo non solo in Italia, anzi, specie altrove, dalla Spagna alla Grecia, e anche in talune situazioni mediterranee, prima che fossero inquinate da agenti esterni di varia provenienza, vanno sottolineate e sostenute esperienze sociali che sono esperimenti politici, come questo, La Cavallerizza occupata, e come la Verdi 15 prima, come il Teatro Valle di Roma, il Coppola di Catania, i “Cantieri che vogliamo” della Zisa, a Palermo, Il teatro Marinoni di Venezia, o le Sale DOCS sempre a Venezia, il Cinema Palazzo a Roma, l’Asilo di Milano eccetera…

Si tratta di una nuova primavera culturale che esprime il bisogno di una politica autentica, con la riappropriazione della essenza della parola e del concetto, connessi come si sa allo stare insieme nella polis. Nella città. Sono esperimenti di straordinario significato, al di là della loro durata, e dell’effettivo valore della proposta “culturale” che sono in grado di offrire. E sono esperienze che occorre moltiplicare, farle diventare, come si dice oggi, “virali”. E si tratta di un virus, quello della cultura, che non può essere fermato né con barriere fisiche, né con le forze di polizia, né con gli interventi della magistratura o gli ukaze dei sindaci.

La cultura non si mangia, ebbe a dire un tale, ebbene credo che tutti noi qui possiamo dire che senza cultura non v’è politica, non v’è umanità. E poiché sono convinto che la cultura non possa essere distaccata dalla realtà, sono qui a testimoniare con la mia presenza che la politica autentica ha bisogno di un fondamento culturale, ma anche che uno studioso, un professore, un artista se vuole essere un intellettuale deve abbracciare interamente la sua epoca, e farsi carico dei problemi che in essa si propongono, e individuarne le cause, denunciarne le responsabilità, e, sempre soprattutto, togliere il velo che nasconde la verità. Perché, dire la verità, arrivare insieme alla verità, come insegna Gramsci, è l’atto più profondamente rivoluzionario che si possa compiere. E anche il più necessario.

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