Pare chiudersi con un bilancio piuttosto positivo la vicenda iniziata tempo fa con la spettacolare occupazione del grattacielo lasciato in rovina da Ligresti. La Repubblica Milano, 30 aprile 2015, postilla
TREDICI piani di hotel e altri diciotto di appartamenti. Dopo sedici anni di abbandono la torre Galfa torna a vivere. Il gruppo Unipol Sai, insieme al Comune di Milano, ha presentato ieri il progetto di riqualificazione per il “grattacielo fantasma” alto 103 metri, nell’area fra il Pirellone e Palazzo Lombardia, disegnato nel 1956 dall’architetto Melchiorre Bega. Un investimento da 100 milioni di euro per recuperare i 31 piani lasciati al degrado degli inizi del Duemila e farli tornare a essere uno degli edifici simbolo dello skyline della città.
«L’incuria e l’abbandono ne avevano deturpato l’immagine, snaturandone il suo alto valore architettonico – ha detto Gian Luca Santi, direttore generale Immobiliare di Unipol Sai, proprietaria dell’immobile – . Il nostro obiettivo era riqualificarlo senza alterare la sua identità. Pensiamo di essere arrivati a una proposta valida, con un intervento di qualità con le tecnologie più avanzate anche dal punto di vista energetico». I lavori dovrebbero partire all’inizio del 2016 e la consegna è prevista entro la fine del 2017. Il nuovo progetto è curato dall’architetto Patrice Kanahm: dal piano meno uno fino al dodicesimo gli spazi saranno occupati da un nuovo albergo del gruppo Melià.
Quelli più alti avranno invece una destinazione residenziale con servizi dedicati ai futuri inquilini. E quindi aree fitness, un ristorante e box per le auto. Il tutto verrà realizzato conservando l’immagine della torre così come era stata disegnata da Bega, assicurano. «Ma con un nuovo involucro ad alta efficienza energetica – spiega Kanah - . È il primo restauro di un edificio contemporaneo, una grande sfida tecnica per restituirlo alla memoria della città, valorizzando le peculiarità originarie come la facciata a vetrata continua ». Sul retro che dà su via Campanini nascerà una nuova struttura in cristallo, una sorta di spina dorsale dove verranno posizionati tutti gli impianti, le scale di sicurezza e gli ascensori ultra veloci.
La torre si trova fra via Galvani e via Fara (il nome Galfa deriva dalle loro iniziali) e ha una superficie di circa 27mila metri quadrati. Era il 1956 quando l’imprenditore Attilio Monti chiese a Bega di progettare un grattacielo da trasformare nella sede degli uffici della sua società petrolifera Sarom. Un edificio che diventa realtà a un passo dall’area dove Gio Ponti, negli stessi anni, tirava su i 127 metri del Pirellone. Innovativo per l’epoca, con la sua struttura in cemento armato senza pilastri e ricoperto da vetri. Nel 1980 viene acquistato Banca popolare di Milano, che lo lascia definitivamente abbandona nel 2001 e lo cede nel 2006 al gruppo Fonsai, allora di proprietà della famiglia Ligresti, acquistato da Unipol nel 2012.
Uno scheletro vuoto per anni, che sempre nel 2012 viene occupato per dieci giorni dal gruppo di artisti del collettivo Macao per mettere al centro la questione degli spazi abbandonati di Milano. «La torre Galfa era diventato uno dei simboli dell’abbandono – ha detto il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris – .Questo progetto si inserisce nel lavoro dell’amministrazione per la rigenerazione e la riqualificazione del patrimonio esistente. È un progetto di grande delicatezza, di restauro e di continuità con tutta l’area, compatibile con il parere della zona. Penso che tutti saranno contenti».
postilla
Può piacere o no la destinazione d’uso di quei volumi, può piacere o no –esteticamente, intendo - il tipo di architettura da centri direzionali di metà ‘900, ma la vera assurdità da cui era nata la spettacolare occupazione del gruppo Macao qualche anno fa pare davvero superata, e con tutti i limiti del caso in modo positivo. C’è un edificio alto, in una zona dove tutti gli edifici sono alti (stiamo accanto al Pirellone, al nuovo Formigone, nonché al quartiere Porta Nuova, distanze di qualche decina, centinaio di metri al massimo), dove si incrociano linee multiple di trasporto collettivo, e non c’è neppure realizzazione di nuovi volumi, solo recupero di quelli esistenti. Certo, starà poi ad altre decisioni, prime fra tutte quelle sui trasporti e la gestione del traffico, a far sì che questo episodio edilizio si trasformi anche in qualità urbana, ma un piccolo passo avanti è innegabile. E certamente nel caso specifico, con una localizzazione del genere, le classiche battute che vedono sempre e comunque il male assoluto nel metro cubo (come chi parlava di “consumo di suolo” per il quartiere adiacente) paiono fuori luogo. Ma il pur benintenzionato benaltrismo avrà certamente da dire anche a questo proposito (f.b.)