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Giuseppe Chiarante
Riforme, l'ossessione della governabilità
18 Aprile 2010
Articoli del 2010
“Riaffermare pienamente lo spirito democratico, stravolto dall'ondata decisionistica e dal mito ossessivo della governabilità, è il compito essenziale delle forze democratiche e di sinistra”. Il manifesto, 18 aprile 2010

C'è, a mio avviso, un palese e stretto rapporto tra la tematica delle riforme istituzionali così come è stata riproposta in questi ultimi tempi da Silvio Berlusconi e dallo schieramento di centrodestra e l'obiettivo di una «grande riforma» tutta imperniata sull'idea di «governabilità» che fu al centro della politica praticata da Bettino Craxi negli anni Ottanta del secolo scorso.

Al riguardo è significativo, del resto, che proprio ad opera di Craxi veniva allora affacciata per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, un'idea di «riforma» (anzi di «grande riforma») con contenuti sostanzialmente rovesciati rispetto alle tradizioni della sinistra riformatrice. In precedenza, infatti, con espressioni di questo tipo o più o meno analoghe, si era fatto sempre riferimento a interventi diretti a incidere in senso progressivo sui rapporti economici e sociali, al fine di migliorare il livello di vita dei lavoratori e della parte più povera della popolazione, di realizzare una maggiore eguaglianza, di assicurare condizioni più favorevoli per l'esercizio dei diritti di cittadinanza: in sostanza con l'obiettivo di un ampliamento della democrazia reale.

Al contrario la «grande riforma» che Craxi proponeva era essenzialmente un insieme di proposte di revisione istituzionale e costituzionale, che avevano l'obiettivo fondamentale di dare più forza al governo rispetto agli altri organi dello Stato, in particolare quelli rappresentativi: giungendo a prospettare anche soluzioni di tipo presidenzialistico, ma intanto modificando i regolamenti parlamentari, facendo ricorso sempre più frequente al voto segreto e ai decreti legge, rendendo più rigido il controllo sui gruppi parlamentari della maggioranza in modo da limitare nei fatti il ruolo del Parlamento sia sul piano legislativo sia su quello della vigilanza e del controllo.

L'obiettivo, in sostanza, era quello di spostare il centro effettivo dei poteri decisionali verso l'Esecutivo, diminuendo il compito delle Assemblee rappresentative. Alla base di questo disegno c'era la motivazione - logica dell'ideologia decisionista che si era venuta affermando negli ultimi anni in tutto l'occidente con l'ascesa al governo di Margaret Tatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti - che per modernizzare il Paese occorreva dare maggiore forza e maggiore efficacia al potere governativo affrancandolo dai freni e dagli impacci derivanti dagli «esorbitanti» poteri di controllo del Parlamento, dall'eccessiva lentezza delle procedure legislative, dai freni rappresentati dall'azione condotta dai partiti di opposizione. Era un disegno che in buona sostanza andava in senso contrario - in nome di un supposta «modernizzazione» - rispetto allo spirito democratico che costituiva il fondamento della nostra Costituzione repubblicana.

Certo, è bene ricordare che il progetto di Craxi non giunse a realizzarsi, e non riuscì a tradursi in formali modifiche delle norme istituzionali e costituzionali; e ciò per vari motivi: soprattutto per la ferma opposizione del Pci di Enrico Berlinguer e per il precipitare della crisi di Tangentopoli che investì personalmente il leader socialista. Ma l'ideologia decisionista fece presa nello spirito pubblico e nel senso comune, anche per il consenso che la posizione craxiana circa la modernizzazione del sistema politico raccolse in settori rilevanti della sinistra di orientamento comunista, in particolare nel gruppo dirigente che fu protagonista della «svolta della Bolognina». Fu così che quando agli inizi degli anni Novanta maturò la frana del sistema dei partiti su cui si reggeva la cosiddetta «Prima Repubblica», una grande parte della classe politica che si raccolse attorno alla suggestione che dalla crisi si potesse e anzi si dovesse uscire attraverso modifiche istituzionali che attribuissero di fatto maggior potere all'Esecutivo, se non altro attraverso la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con un sistema marcatamente maggioritario.

Fu così che si crearono le condizioni per l'ascesa al governo di Berlusconi e per l'affermazione del suo blocco di potere, che aveva le sue radici in un nuovo impasto ideologico in cui le parole d'ordine del decisionismo e della modernizzazione si intrecciavano col personalismo, col populismo, col mito della maggiore «democraticità» dei meccanismi dell'elezione diretta. Ma, soprattutto questa nuova situazione apriva la strada a un progressivo mutamento di fatto della «Costituzione materiale», nel senso di spostare il centro del potere dalle assemblee legislative al governo reso più forte da un'ampia e stabile maggioranza parlamentare; ma soprattutto nel senso di dare al premier la convinzione che la designazione diretta da parte degli elettori gli affidava un mandato a governare che non poteva essere vanificato o paralizzato da regole procedurali, da conflitti di competenze o da cavilli giuridici circa il ruolo dei diversi poteri dello Stato. Le polemiche di questi mesi sono divenute espressione di questo modo di intendere il proprio ruolo - secondo una visione decisionista che risale alla «grande riforma» di craxiana memoria - da parte del Presidente del Consiglio.

È perciò facilmente comprensibile che i risultati delle elezioni regionali, consolidando il governo e rafforzando nel Paese lo schieramento di centrodestra che lo sostiene, abbiano incoraggiato Berlusconi a procedere con decisione sulla strada che già aveva annunciato di voler intraprendere, ossia quella di una riforma della Costituzione che sia imperniata sulla centralità del ruolo del premier attraverso l'adozione di soluzioni presidenzialistiche o semipresidenzialistiche o anche solo attraverso l'introduzione del cosiddetto «premierato forte», che preveda però la designazione diretta del Presidente del Consiglio da parte degli elettori e l'attribuzione al premier del potere di decidere lo scioglimento delle Camere e la convocazione di nuove elezioni.

Si tratterebbe, in ogni caso, di una riforma che significherebbe il passaggio da una Repubblica di stampo democratico- parlamentare a una Repubblica con marcata impronta autoritaria o semiautoritaria: tanto più se l'ossessione della governabilità finirà col tradursi nella diretta investitura elettorale di chi sarà chiamato a dirigere il Paese. Non credo che rispetto a una prospettiva tanto pericolosa una strategia difensiva adeguata possa consistere semplicemente in una rivendicazione di metodo, ossia nella richiesta che si sviluppi un confronto che coinvolga tutte le forze parlamentari al fine di acquisire il contributo di tutti all'elaborazione delle regole che debbono disciplinare la convivenza comune; e neppure nella rivendicazione che sia in ogni caso salvaguardata l'integrità dei princìpi affermati nella prima parte della Costituzione.

Certo, il richiamo ai principi è importante; ma l'essenziale è un impegno politico e culturale rivolto a rovesciare la prevalenza di uno spirito pubblico ispirato all'ideologia decisionistica e a un senso comune populistico e plebiscitario, puntando invece a riaffermare la sostanza reale della democrazia, che può fondarsi soltanto sulla piena partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni, sulla divisione dei poteri tra gli organi dello Stato, su un sistema elettorale che assicuri l'equa rappresentanza dei cittadini negli organi legislativi e che dia alle assemblee rappresentative un potere di indirizzo e di vigilanza nei confronti degli organi esecutivi. Riaffermare pienamente lo spirito democratico e ridisegnare su queste basi il sistema politico del Paese, stravolto dall'ondata decisionistica e dal mito ossessivo della governabilità è il compito essenziale cui sono chiamate, in questo difficile momento, le forze democratiche e di sinistra.

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