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Ricordando Enrico Berlinguer
6 Giugno 2004
Enrico Berlinguer
Nell'anniversario della sua morte, la Repubblica del 6 giugno 2004 ricorda Enrico Berlinguer. Riporto le testimonianze di Indro Montanelli, Gillo Dorfles e Gampaolo Pansa

Indro Montanelli

Berlinguer ha lasciato senza dubbio un grande vuoto, politico e umano. Per le sue doti personali, che erano notevoli, e per la straordinaria capacità dell´intellighenzia comunista d´aureolare di carisma leader che meno sembravano adatti alla comunicativa - si pensi a Togliatti - era diventato un protagonista della vita politica. Meritava - più di tanti altri - d´esserlo: perché poteva commettere errori, mai disonestà o bassezze.

I suoi apologeti, spesso smodati, hanno fatto di lui una sorta di audace rinnovatore del comunismo. La verità è che Berlinguer aveva una mente aperta, ma all´interno degli schemi di partito: e che la sua conversione al nuovo fu graduale, attenta e sofferta: un adeguamento intelligente alle prospettive che la storia e la politica, in Italia e fuori d´Italia, imponevano, e che avevano costretto anche il coriaceo Marchais a molte concessioni.

Gillo Dorfles

Ecco perché un timido piaceva tanto alla gente , intervista di Antonio Gnoli

«Ho ancora viva l´immagine dell´uomo. Berlinguer è stato un caso raro, forse unico, di politico in grado di trasmettere un senso di fiducia e amorevolezza», Gillo Dorfles, studioso di estetica e di comportamenti legati al costume offre una lettura un particolare di Berlinguer.

«La sua postura, il suo modo di darsi in pubblico pur nella reticenza assoluta, suggerivano situazioni insolite per un politico. Innanzitutto la distanza. Dalla sua persona emanava qualcosa di remoto e intangibile. Se penso alle odierne risse televisive, al modo arruffato con cui la politica cerca l´autoaffermazione, non posso non rilevare quanto distante fosse la sua presenza. Distanza ma anche diversità. Ecco l´altro tratto sorprendente. Ci è difficile immaginare un politico altrettanto spoglio da ambizioni mediatiche, così sprovvisto di retorica e talmente scarno nell´oratoria da risultare quasi affetto da mutismo. Le sue parole erano avvolte dal silenzio. Niente a che vedere con le studiate pause craxiane, con quel parlare lento e calcolato. Quelle parole sembravano al contrario scaturire da una immensa timidezza».

«Tutto questo ha finito con il creare il più involontario degli esercizi carismatici: la distanza si è trasformata in un´aura potente, la differenza in un valore al quale riferirsi, la timidezza in una forma di aristocratica innocenza. Nessuno, nell´Italia degli anni Settanta, è stato come lui: un punto di attrazione per i più diversi strati sociali. Un operaio poteva vedere in lui la moralità al potere, il borghese quel senso aristocratico che gli derivava dalle sue radici».

«Non è irrilevante dove e come si nasce. Berlinguer apparteneva a quella ristretta cerchia di famiglie sarde, aristocratiche e colte, dalle quali sono usciti personaggi di primo piano, come Pintor o Cossiga. È ovvio che da solo questo non sarebbe bastato. E non so se oggi un uomo del genere avrebbe avuto quella presa che ebbe allora. Mi permetto di dubitare. Di lui, a me che non mi sono mai occupato di politica, resta la sua rara essenzialità antropologica. Il suo corpo erano i suoi pensieri. Dopotutto quest´uomo apparentemente fragile e dimesso è stato quello che ha persuaso milioni di persone, anche fuori dal suo partito, sull´efficacia e la bontà di un certo progetto politico. Non giudico se un tale progetto fosse giusto o sbagliato, non spetta a me dirlo. Quello che posso notare in conclusione è che esteticamente fu il contrario del kitsch: un personaggio tragico».

Giampaolo Pansa

LA STORIA DI RE ENRICO UOMO SOLO AL COMANDO

Enrico Berlinguer è stato davvero l´ultimo Segretario Generale. E non soltanto del più grande partito della sinistra. Parlo anche degli altri grandi partiti italiani. Oggi guidati da leader a volti capaci, a volte no. Ma tutti troppo arrendevoli ai media e sempre alla ricerca della visibilità.

Per apprezzare la siderale alterità di Berlinguer, bisogna raccontare come si arrivava a intervistarlo. Ossia attraverso quale rito religioso occorreva passare, prima di raccogliere il verbo che lui aveva deciso di affidarti.

L´officiante del rito era Antonio Tatò. Il suo assistente? Il suo portavoce? Il suo segretario? Macchè, Tonino era ben di più. L´angelo custode. L´eminenza grigia del berlinguerismo. O suor Pasqualino, come l´aveva battezzato Alberto Ronchey, per paragonarlo alla monaca occhiuta che governava Pio XII. Era bello Tonino. Alto. Prestante. Voce bene impostata. Mix perfetto di alterigia e di cordialità. Splendido profilo tra il centurione e il barbiere di lusso. Chioma nera, imbrillantinata, taglio anni Quaranta, da attore nei film dei telefoni bianchi.

Era lui a stabilire il trattamento da riservare ai giornali. Un´intervista vera, faccia a faccia con il Segretario Generale. Oppure soltanto risposte scritte, da Tonino ovviamente. La volta della Nato e di Dubcek, era il giugno 1976, vigilia elettorale, a me toccò l´intervista vera. Quella precotta se la beccò Gaetano Scardocchia, allora capo dell´ufficio romano della Stampa. Gaetano protestò per un´ora, ma non ci fu nulla da fare. Tonino gli spiegò che non era per disistima verso di lui, ma per il padrone del giornale, Umberto Agnelli, candidato della Dc al Senato. In quel tempo, il Dottore e i suoi uomini non erano amati a Botteghe Oscure. E Fortebraccio, il sarcastico corsivista dell´Unità, li bollava così: «Arriva Umberto Agnelli scortato da Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore».

Berlinguer era l´opposto di suor Pasqualino. Prima di tutto nell´aspetto fisico. Una figura smilza, quasi fragile, da adolescente che non ha mai giocato a pallone ed è invecchiato di colpo, le spallucce un po´ incassate, la schiena già curva. In quel 1976, aveva 54 anni, uno in meno del D´Alema di oggi. Però il viso era più vecchio, il volto di un uomo che non si risparmiava, che aveva consegnato se stesso alla politica e al partito. Un pallore grigio da fatica. Occhiaie. Rughe ben nette. Capelli come aghi di un´istrice. Barba di fine giornata quasi bianca. Il vestito, poi, gli conferiva un´apparenza da funzionario di federazione. Il solito abito carta da zucchero, un po´ informe. La cravatta rossiccia annodata alla meglio. Una camicia bianca qualsiasi.

Eppure guai a lasciarsi ingannare dall´apparenza. L´insieme che ho descritto, invece di trasmettere una sensazione di fiacchezza, ti scagliava addosso una forza insospettabile in quel piccolo uomo. Un´energia contenuta, ma grandissima. Compressa come una molla pronta a scattare. Trave portante di un carattere ferreo, da super testardo, anche capace di molte asprezze. Il carattere di un uomo abituato a nascondere il fuoco interno, la passione politica e la fede in una missione sotto una coltre fredda, dimessa. Quella che faceva sembrare un monarca rosso soltanto un suddito del partito. E un leader comunista indiscusso appena una formica paziente della lotta di classe.

Questo scudo consentiva a Berlinguer di dissimulare un´altra dote che sperimentai subito, a mie spese, nei preliminari di quella e di altre, successive interviste. Il Segretario Generale aveva un tratto da antico aristocratico che, nel ricevere un borghese che non conosce, lo fa parlare. Per capire quali siano le sue intenzioni. O per prepararsi a scansarne le pretese quando gli sembrino eccessive. Me ne resi conto dopo: Berlinguer era il contrario dei politici verbosi che oggi danno aria ai denti da tutte le tivù, indefessi dichiaratori del nulla. Parlando pochissimo, sapeva ottenere lunghe risposte.

Mentre tu cadevi nella rete, lui ti ascoltava senza batter ciglio, senza mai scoprirsi, senza concedere che qualche rara briciola di se stesso. Condita da un sorriso stento, ma sempre con una punta di malizia. Che il Segretario ti regalava tormentandosi l´orecchio destro, un tic che emergeva quando non fumava una delle tante Turmac. O quando non beveva un dito di whisky allungato con molta acqua. Un piccolo vizio da praticare con lentezza, a sorsi misurati con parsimonia, l´aria curiosamente rassegnata di chi prende una medicina.

Intervistarlo, soprattutto in momenti cruciali per il partitone rosso, richiedeva all´interrogante un´intensità pari alla sua. E fargli domande equivaleva a inoltrare quesiti scomodi a un santo assiso sotto il baldacchino. Tu all´esterno di quel riparo invisibile, ma esistente. Lui protetto e attento, chiuso nella lontananza dei propri doveri di leader e, insieme, teso a non sbagliare, per ottenere il meglio da quel lavoro a due.

Mi ha sempre colpito in Berlinguer l´estrema cura che metteva nel rispondere. Aveva già studiato l´elenco delle domande, che suor Pasqualino gli aveva consegnato almeno un´ora prima. E davanti al tuo quaderno ancora bianco, aspettava da te la prima mossa.

Quella d´avvio di una partita a scacchi di cui soltanto lui conosceva l´esito. In tanti anni, non sono mai riuscito a sorprendere Berlinguer con domande-tranello. Se aveva accettato i quesiti che Tatò voleva bocciare, significava che intendeva fare del nostro colloquio un atto politico destinato a restare. Però a deciderne il modo e il livello era affar suo. Dopo l´intervista sulla Nato, Giancarlo Pajetta parlò di una «forzatura giornalistica». Eppure doveva ben sapere che era un´eventualità inesistente con il Segretario Generale. E per il rito consumato nella piccola stanza, al secondo piano delle Botteghe Oscure: una scrivania coperta di carte, uno scaffale di libri, una fotografia di Gramsci alla parete.

Tre ore di colloquio alla presenza di un Tonino teso più del suo capo. E a volte ansioso di suggerirgli le risposte. Quarantadue pagine di appunti. Il giorno successivo, la revisione del testo, sempre per opera del santo sotto il baldacchino. Armato di una biro nera, Berlinguer procedeva pensieroso, la fronte aggrottata, con una lentezza sfiancante. Propria di chi sa di avere, dentro il partito, tanti fucili spianati a suo danno. E ha imparato che ogni parola può nascondere un´insidia, e quindi va soppesata, valutata, in tutti i suoi pro e i suoi contro.

Il Segretario Generale rileggeva ad alta voce le risposte che mi aveva dato. Se la prova non lo convinceva, la biro calava sul foglio per l´inevitabile correzione. «Lei corregge troppo!» protestavo. E lui, con un sorriso magro, replicava: «Non correggo: miglioro». Aveva una grafia minuta, ben disegnata, tutta spigoli, inclinata sulla destra, con certe lettere un po´ uncinate. Adesso che la guardo dopo tanti anni, mi vien da dire: ecco una grafia d´acciaio, infrangibile come la struttura umana di re Enrico.

Sto cadendo nel vezzo di mitizzare Berlinguer? Penso di no. Mi sono ben chiari i suoi errori, gli integralismi, le lentezze nel procedere verso un traguardo che sarà raggiunto, ma non da lui, soltanto nel fatale Ottantanove. Era anche un leader altero. Troppo orgoglioso della propria diversità. Sicuro all´eccesso di essere nel giusto. Moraleggiante. Un po´ cupo. Fustigatore dei peccati del mondo.

Ma come si fa a non rendergli onore? L´onore che spetta a un uomo che ha lottato per la propria causa in modo chiaro e leale. Dentro un´epoca sempre più marchiata dalla disonestà, dal trasformismo e dalla viltà.

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