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Amerigo Restucci
Restucci: «Si, l'arte può salvare il nostro paesaggio»
13 Gennaio 2013
Il paesaggio e noi
Sembra diventata egemonica la concezione del paesaggio come parte del territorio valutata e governata così come viene "percepita dalle popolazioni", lo testimonia questa intervista di Leonardo Petrocelli al rettore dell’Iuav. pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno il 10 gennaio 2013.

Sembra diventata egemonica la concezione del paesaggio come parte del territorio valutata e governata così come viene "percepita dalle popolazioni", lo testimonia questa intervista di Leonardo Petrocelli al rettore dell’Iuav. pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno il 10 gennaio 2013.,con postilla

Nel ciclo di affreschi «Allegorie ed effetti del buono e del cattivo governo» il pittore senese Ambrogio Lorenzetti illustrò, a metà del Trecento, come la città e i territori limitrofi possano essere valorizzati dall'applicazione di un corretto corpus di regole. Una banalità, in apparenza, che la miopia modernista ha però rischiato di trasformare in chimera o, quantomeno, in una non vicinissima frontiera della governance cui è necessario approssimarsi al più presto. «Non si tratta infatti di un semplice affresco, ma di un manifesto politico tradotto in un messaggio artistico» spiega Amerigo Restucci - storico dell'architettura e rettore, dal 2009, dell'Università Iuav di Venezia - individuando così nell'opera del Lorenzetti l'incipit più adatto per una riflessione sulla tutela del paesaggio e sul rapporto fra arte e territorio. «Un tema centrale - osserva - destinato a riaffacciarsi costantemente nel dibattito italiano e su cui, in questi ultimi tempi, molti hanno prodotto interessanti riflessioni».

Professor Restucci, iniziamo dai fondamentali. Cosa si deve intendere per tutela del paesaggio?
«In questo caso, tutela è sinonimo di governo. E governare un territorio vuol dire produrre, con giudizio, un insieme di regole concepite per mantenere una continuità storica fra segni del passato e segni del presente. Senza però imporre un vincolistica esagerata e nemica del bene. Solo così un territorio può assumere quel coefficiente di bellezza e qualità che chiamiamo paesaggio. In questo senso si sono spesi attivamente numerosi uomini d'arte e di cultura, richiamandosi tutti all'articolo 9 della Costituzione che impone la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico nazionale».

Dalla teoria alla pratica: come ci si muove nel concreto?
«L'indicazione che giunge dal ministero dei Beni Culturali è quella di strutturare piani paesaggistici lavorando a stretto contatto con le regioni. Il termine che definisce questa sinergia è "co-pianificazione". L'input è positivo e le varie sopraintendenze regionali sono già al lavoro per costruire dei percorsi virtuosi. Naturalmente, è necessario procedere con opportune analisi storiche per declinare correttamente i messaggi del passato. In Francia lo hanno capito già da tempo, fin dalle redazione della Encyclopédie di Diderot e D'Alembert dove, alla voce Paysage, si poteva rintracciare questa linea di indirizzo. In Italia ci stiamo arrivando».

Da dove bisogna attingere per una corretta ricostruzione storica?
«Innanzitutto dall'iconografia cioè dall'osservazione del paesaggio attraverso le immagini che provengono dal mondo dell'arte. Penso agli affreschi del Cinquecento e del Seicento presenti nelle chiese di Puglia o alle varie Madonna con Bambino di Cima da Conegliano. Quest'ultimo non è un rimando casuale: proprio su ispirazione di quelle suggestioni visive si è evitato di costruire la zona industriale di Conegliano sulle colline affrescate dall'artista alle spalle delle figure. Spunti molto interessanti possono anche giungere dalle campagne fotografiche del secondo Ottocento, dai resoconti dei viaggiatori e dalle opere letterarie come, ad esempio, Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e le poesie di Rocco Scotellaro».

Avventurarsi in questo percorso significa penetrare il territorio e ricostruirne la memoria anche al di là delle necessità di governo...
«Un esempio su tutti. Carlo III di Borbone, nel 1730, si adoperò per costruire la "Appia", cioè la strada statale 7 che taglia in due la Basilicata in direzione di Taranto e Brindisi. Quella strada portò cultura e Carlo III si qualificò come propositore di un messaggio di governo volto a premiare il territorio, smentendo la tesi del puro oscurantismo borbonico. È attraverso segni come questo che si può ricostruire una storia paesaggistica».

Ma esiste comunque il rischio di inseguire degli stereotipi?
«Il rischio c'è sempre. È imperativo superare 1'immaginetta stereotipata del paesaggio cui si fa sempre riferimento, ad esempio, quando si parla di Toscana. Il vialetto di cipressi che spesso compare nelle pubblicità delle automobili è davvero l'unico paesaggio da citare? Non è degno paesaggio anche uno jazzo sulla Murgia o una masseria nel Brindisino?».

Se, invece, parliamo di paesaggio urbano a quale linee guida bisognerebbe ispirarsi?
«Bisogna stare attenti a non riproporre la desueta filastrocca sui centri storici, ma puntare a governare tutto il costruito: le parti nuove della città, le sue periferie, i segni industriali dispersi sul territorio. Anche grazie a garbate operazioni di ristrutturazione, risulta possibile inserire tali episodi fuori contesto in un tema comune. Oltretutto, è sempre utile ricordare che un paesaggio ben governato, dalla campagna alla città, è capace di contenere i danni causati dalle calamità naturali».

Nel dibattito culturale si parla sempre più insistentemente di Italia come «bene comune»: il cittadino che ruolo potrebbe rivestire in questo percorso?
«I cittadini possono operare attivamente per la salvaguardia del territorio. È già accaduto in passato. Basta indirizzare il pensiero ai contadini che costruivano e curavano i muretti a secco, oggi oggetto di un associazionismo culturale spontaneo. Non bisogna favorire le divisioni, bensì la partecipazione. Da questo punto di vista la scuola assume un ruolo decisivo contribuendo a costruire nelle coscienze dei più giovani, persino dei bambini, una indispensabile cultura del paesaggio».

A febbraio si tornerà a votare. Quale invito rivolgerebbe al governo che verrà?
«Esorterei tutti a pensionare la politica delle urla, dei graffi, della spettacolarizzazione. A quell'articolo 9 della Costituzione hanno lavorato uomini, come Aldo Moro, che desideravano regalare al Paese ima pagina di alto profilo civico. Ecco, bisogna ricostruire il senso profondo del fare politica e servono partiti disposti a coinvolgere attivamente la società. Anche perché siamo reduci da una stagione "tecnica" in cui è mancato l'ascolto del pensiero comune. Qualche segnale di risveglio, in questo senso, mi sembra già di percepirlo».

Postilla

Le considerazioni di Restucci mi confermano nella convinzione che in Italia si parla spesso del paesaggio e della sua tutela senza rendersi conto del mondo in cui viviamo. Si direbbe che la definizione di “paesaggio” proclamata dalla Convenzione europea è diventata pensiero comune non solo nella sua seconda parte, del tutto condivisibile, ma anche là dove attribuisce alla «percezione delle popolazioni» il criterio sulla cui base decidere che cosa debba essere conservato e che cosa possa o debba essere trasformato e come. Mi sembra preoccupante che questa concezione sia oggi , sia condivisa anche da persone dotate di spirito critico e di capacità di lettura storiche dei contesti, come indubbiamente Restucci è. Come ha osservato giustamente Alberto Magnaghi (che certo non è un avversario del "locale e anzi ha contribuito a farne riconoscere la rilevanza) altro è assumere quella definizione come un obiettivo al quale tendere, altro è considerarla un dato di fatto. Nessun brandello pulito e bello d’Italia resterebbe ancora tale se ritenessimo di vivere oggi in una società che considera il territorio così come lo considerava e lo usava la società (la sua struttura, la sua cultura, e quindi le sue istituzioni sintetizzati nella sale del Palazzo pubblico di Siena. Finché il territorio sarà concepito, organizzato e utilizzato e "governato" come una risorsa da trasformare in ricchezza privata anziché come un patrimonio da arricchire nelle sua qualità per consegnarlo ai posteri, nell’ampia gamma delle azioni che la tutela comprende sono sempre più convinto che debba prevalere l’azione e l’arma del vincolo, più autoritativo possibile. Ma l’argomentazione di questa tesi, il suo significato e le sue conseguenze non possono certo concludersi nel breve spazio di una postilla.

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