«Con il minimo dei voti e defezioni anche nel Pd la camera e il senato approvano in contemporanea i decreti Minniti-Orlando»
Il decreto Minniti-Orlando è legge. I numeri della camera all’ultimo passaggio dicono questo: l’Italia ha introdotto nel suo ordinamento un rito processuale di serie B, con meno garanzie, che sacrifica i diritti universali di una categoria particolarmente debole, i richiedenti asilo, grazie a una maggioranza molto scarsa, appena sufficiente, e garantita da un solo partito: il Pd. Neanche tutto il Pd, visto che all’appello sono mancati circa ottanta deputati del gruppo, prova tangibile dei malumori provocati dalla stretta repressiva. Alla fine i sì al decreto, dopo che martedì era passata la fiducia al governo legata al provvedimento, sono stati 240, molto al di sotto della teorica maggioranza di governo e anche della maggioranza assoluta. Se la legge non è stata fermata è stato ancora una volta per il largheggiare delle «missioni» e le assenze delle (teoriche) opposizioni, Forza Italia soprattutto con più di mezzo gruppo a spasso, ma anche Fratelli d’Italia. Conferma indiretta dell’apprezzamento di cui gode Minniti a destra.
Molti assenti (un terzo) anche nel gruppo 5 Stelle, ma i grillini ieri hanno fatto notizia più per le dichiarazioni anti rumene di Di Maio. Dei 240 sì, ben 205 appartengono al Pd, il resto è contorno centrista – e pure da quelle parti prevalevano gli assenti. Nella calda mattinata di ieri era più facile incontrare deputati in giro per la città tra bar e musei che in aula, dove è stato convertito un decreto che scardina il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Ma a finire sotto accusa è stato il gruppo Mdp-Articolo 1, bersaglio degli attacchi dei renziani. I deputati bersanian-dalemiani ex Pd ed ex Sel hanno votato no alla legge, come annunciato martedì quando invece si erano divisi sulla fiducia, con gli ex democratici che non se l’erano sentita di negare l’appoggio al governo. Ieri invece sono rimasti più o meno uniti, dal no della maggioranza del gruppo si è distinta una pattuglia di otto deputati che preferito la mossa più soft di non partecipare al voto.
Un attimo dopo l’approvazione, il capogruppo del Pd Rosato ha sorvolato sulle assenze dei suoi deputati ma ha attaccato Mdp, definendo «inaccettabile» il voto contrario di un partito che fa parte della maggioranza. «Se vogliono destabilizzare la legislatura lo dicano espressamente – ha detto – sono sulla strada giusta per farlo, i decreti sono un pezzo dell’azione di governo». Insomma, la colpa delle fibrillazioni attorno a Gentiloni non è della voglia di Renzi di correre alle urne, ma dei bersaniani. Che hanno risposto tentando di spiegare il differente atteggiamento tra camera e senato, dove avevano votato sì alla fiducia e dunque al decreto: «C’era l’impegno a modificarlo alla camera, ma ci è stato impedito», ha detto il capogruppo Laforgia. Un ragionamento del genere sta dietro le assenze «politiche» dei deputati Pd, anche se pochi – Bruno Bosio, Monaco – hanno reso pubblico il dissenso.
Lo hanno fatto invece al senato Manconi e Tocci, anche loro del gruppo Pd, che non hanno partecipato al voto sulla fiducia con la quale ieri, parallelamente, si è compiuto il ciclo dell’altro decreto Minniti, quello sulla sicurezza urbana, ugualmente contestato da giuristi e associazioni. Anche in questo caso nessun dibattito vero, nessuna modifica possibile e volontà del governo blindata con la fiducia. E ancora numeri molto bassi, solo 141 sì, un altro record negativo per l’esecutivo Gentiloni. Sufficiente però per andare avanti, calpestando diritti e garanzie.
CON IL DECRETO MINNITI
PIÙ TUTELE AI REATI BAGATELLARI
CHE GARANZIE AI MIGRANTI
di Gaetano Azzariti
«Diritti e Costituzione. E il governo riduce le garanzie a chi ne ha più bisogno»
La riduzione delle garanzie processuali per i richiedenti asilo contrasta con la nostra tradizione giuridica e costituzionale. Se, come si sostiene dalle parti del Governo, il decreto Minniti-Orlando è di sinistra, esso ne riflette lo stato confusionale. E mostra la difficoltà d’affrontare le questioni dell’immigrazione nel rispetto del principio della dignità delle persone.
Quel che più colpisce è che la “sinistra al governo” si fa promotrice di una normativa che nega adeguata protezione proprio ai soggetti più vulnerabili, sbilanciando ulteriormente il già iniquo sistema giudiziario. Le nuove disposizioni eliminano un grado di giudizio nei casi in cui si sia negato al richiedente il diritto d’asilo. In tal modo si pensa di accelerare i processi, senza però tener conto che l’oggetto del giudizio riguarda un diritto fondamentale tutelato dalla nostra Costituzione dall’articolo 10. Sino ad ora questi diritti richiedevano una tutela rafforzata, adesso essa si attenua. È sintomatico che la riduzione dei tempi processuali riguardi i migranti e non magari i reati bagatellari.
Ad aggravare il quadro è la riduzione delle garanzie nell’unico giudizio di merito rimasto (v’è poi solo la possibilità di ricorrere in Cassazione per violazione di legge, garantita dall’articolo 111 della Costituzione). Una delle misure previste appare assai significativa in quanto lesiva del diritto di difesa, nonché del principio del giusto processo garantiti in Costituzione dagli articoli 24 e 111. Nei processi relativi alle richieste di asilo non è infatti assicurato il contraddittorio, il giudice può decidere senza aver ascoltato l’interessato. Ciò comporta che l’unico momento in cui il migrante può esporre le sue ragioni a fondamento della richiesta d’asilo è nell’incontro con la Commissione territoriale. Un “colloquio personale” che, ovviamente, non può fornire nessuna certezza processuale: esso si svolge in assenza di ogni assistenza legale ed è da dubitare che gli interessati siano in grado di valutare correttamente la situazione e prospettare adeguatamente le complesse motivazioni a sostegno del loro diritto fondamentale.
Un esame più accorto, che solo l’udienza pubblica con l’intervento delle parti davanti ad un giudice terzo e l’assistenza di un difensore può garantire, appare necessario non solo in ragione della tutela dell’interesse del migrante, ma anche per assicurare la correttezza della decisione. Dovrebbe, in effetti, essere tenuto in maggior conto l’interesse pubblico alla certezza del giudizio da salvaguardare sempre, ma tanto più in quei casi in cui, come ci viene continuamente ripetuto, può venire in gioco persino la sicurezza dello Stato. Anche da questo punto di vista la nuova normativa risulta irragionevole. In molti casi di richiesta d’asilo l’accertamento che deve essere compiuto si rileva particolarmente complesso, immaginare che tutto si possa risolvere in un’intervista videoregistrata appare assai superficiale.
Un particolare rivela lo spirito essenzialmente securitario, nonché l’inadeguatezza del decreto. Una delle questioni più delicate delle politiche di accoglienza riguarda i Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La Corte costituzionale ha indicato da tempo (sent. n. 105 del 2001) come il trattenimento dello straniero in simili luoghi rappresenti una misura che incide sulla libertà personale e che dunque debba essere garantito il rispetto delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Un legislatore consapevole e rispettoso dei principi costituzionali dovrebbe affrontare la questione e definire un sistema di trattenimento con – come scrive ancora la Corte – «finalità di assistenza» e che impedisca la «mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere».
Il decreto per ora si limita a cambiare il nome dei Cei, ma non sembra preoccuparsi della natura sostanzialmente detentiva della permanenza coatta entro queste strutture. Un modo per sfuggire alla realtà di politiche migratorie le cui soluzioni sono certamente assai complesse che devono però essere costituzionalmente orientare. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una sinistra di governo e non solo al governo.