Si mette mano ad una nuova legge urbanistica per molte ragioni che possono spingere verso una riconfigurazione della precedente piuttosto che verso una semplice integrazione. Ed è stato il caso della L. 20/2000.
Si parla di un naturale logoramento dell’apparato giuridico di fronte all’evoluzione dell’ordinamento, conseguenza del mutamento istituzionale: si pensi alle sollecitazioni che negli ultimi anni sono venute dal processo di integrazione europea o da protocolli di ancora più vasta scala, come quelli sul clima o sul commercio.
Un’altra sollecitazione ciclicamente invocata è quella che viene dai nodi irrisolti della struttura normativa e dalle lacune aperte dalle decisioni giurisprudenziali: uno per tutti il tema degli espropri e dell’indennizzabilità dei vincoli.
Ma la sollecitazione più forte che vorrei portare alla attenzione del dibattito politico e disciplinare (nella occasione che si presenta ora di “correggere il tiro” dopo la fase di rodaggio) è quella che viene dal profondo mutamento sociale che è in corso nel Paese, eco sensibile di quanto avviene nel Mondo.
Sollecitazione che pone innanzitutto problemi di efficienza del sistema istituzionale, delle sue regole, delle sue performances amministrative, in un clima di crescente austerità per la finanza locale.
Da questa sfida a riportare il Paese in efficienza l’urbanistica non può chiamarsi fuori e deve innovare le proprie tecniche e le proprie pratiche.
La ricerca di forme praticabili di cooperazione intercomunale - leggibile nel testo regionale di revisione - è una risposta che va nella direzione giusta.
Così come l’utilizzo di modalità perequative che consentano di mobilizzare le inerzie di una “attuazione senza esproprio”.
Così come gli accordi - espliciti e trasparenti - con gli interessi privati in campo, specie nelle operazioni di riqualificazione.
Così come la promozione di accorte forme di integrazione verticale tra le istituzioni che mettano in valore le risorse in mano ai sistemi regionali e alle comunità locali.
Così come dovrebbe esserla (una risposta) la costruzione di percorsi decisionali tempestivi che sappiano coniugare la velocità della decisione con l’assunzione di responsabilità politica e amministrativa nei confronti dei suoi esiti.
La tesi che voglio sostenere è in prima istanza quella che senza un deciso recupero di efficienza non c’è spazio (non si generano risorse reali) per nessuna prospettiva seria di coesione sociale e di sostenibilità ambientale.
Il Paese, il suo paesaggio, si mostra ormai profondamente segnato da una trama sempre meno riconoscibile (nella sua matrice costitutiva) e sempre meno funzionale, anche quando - e sono i casi più numerosi - pienamente legittimata nei suoi presupposti normativi.
Siamo proprio, come dice Marco Revelli, una società a fine corsa? Questo mi pare un quesito cui anche noi urbanisti dobbiamo dare una risposta, cercando le ragioni disciplinari per la rigenerazione di un impegno civile in cui si riconoscano ampi strati della società.
Torniamo, per servire alla domanda, alle sollecitazioni del mutamento sociale di questo inizio secolo.
Innanzitutto registriamo una inaspettata ripresa della crescita della popolazione nelle regioni del centro nord e anche nei loro cuori urbani, dopo vent’anni e più di diffusione suburbana.
Una popolazione invecchiata ormai più per l’aumento della speranza di vita che per la pur drastica riduzione della natalità, ora peraltro in ripresa.
Una popolazione organizzata in nuclei famigliari sempre più ristretti e più atipici (più distanti, per intenderci, dal modello di famiglia del Mulino Bianco ...).
Una popolazione che anche per questo registra una modificazione strutturale dei propri consumi dove pesano sempre più le quote destinate ai consumi indivisibili (le spese per la casa e per i mezzi di trasporto, ripartite su un numero sempre più esiguo di componenti) rispetto a quelli più fortemente individualizzati, sacrificati dalle minori risorse rese disponibili nei bilanci famigliari dalla bassa crescita e dal permanere di un elevato livello di pressione fiscale.
Una popolazione con un forte ricambio anagrafico che tende a modificare il rapporto di identità con i luoghi e pone interrogativi pressanti alle politiche di coesione.
Una popolazione segnata ormai irreversibilmente dalla presenza di una componente straniera che ha coperto i vuoti nel mercato del lavoro ma soprattutto ha risposto alla domanda di servizi di cura che né le risorse fisiche delle famiglie né le risorse finanziarie del sistema di welfare erano ormai in grado di garantire: le badanti dell’est europeo sono state il fattore più rilevante per evitare una crisi verticale del modello di vita della nostra società “affluente”.
Già nel titolo la proposta di legge di iniziativa della Giunta Regionale per la modifica e l’integrazione della legge urbanistica e di quella sulla riqualificazione urbana si mostra sensibile a queste sollecitazioni e ha il merito di riportare il tema della casa e della sua domanda sociale al centro della attenzione.
Mi pare che questa vada senz’altro registrata come la novità più interessante del nuovo disegno di legge.
Ovviamente questa innovazione di prospettiva si deve misurare con la diversa capacità di adeguamento che la struttura degli articolati della 20 e della 19 mostrano.
La 19 registra il nuovo standard del 20% di edilizia sociale come prestazione immediatamente eseguibile dai suoi PRU, una volta che sia costruita la condivisione sociale necessaria e varata la nuova disciplina.
Più complesso appare l’adattamento della 20 nella quale l’assorbimento del 20% di edilizia sociale è demandato ai PSC di futura formazione ed è reso più complesso dal suo allineamento allo standard di servizi piuttosto che ad una opportuna misura perequativa.
In ballo è la tempestività e l’efficacia di una manovra fondiaria per troppo tempo sottovalutata (e sotto-praticata) che deve rispondere alla domanda abitativa di una quota ormai non più marginale di famiglie che non sono in grado di sostenere l’onere del costo di mercato (affitti o mutui) dell’accesso ad una abitazione decorosa.
Ma è proprio della nuova figura del PSC che si dovrà tornare a parlare per l’importanza che ad esso si attribuisce, a ragione quando si vuole mettere in risalto l’importanza delle questioni strategiche e strutturali che deve governare, in modo meno convincente quando lo si chiama a risolvere l’annosa vicenda della sentenza della Corte Costituzionale sulla onerosità della reiterazione dei vincoli, questione risolta di fatto dalla perequazione.
Una nuova figura che è chiamata finalmente a misurarsi esplicitamente con i temi della sostenibilità (e della sua valutazione), dovendo rendicontare il “rendimento ambientale” del piano, in particolare dimostrare la sua consapevolezza sulle questioni fondamentali della sostenibilità sociale ( welfare/casa/piano dei servizi), dei nuovi modelli di mobilità, della minimizzazione del consumo delle risorse primarie irriproducibili e del prelievo sostenibile di quelle rinnovalbili.
Pochi anni prima della nuova legge ci è capitato di costruire una esperienza di pianificazione intercomunale per la Città del Rubicone, quando di reti locali – tema oggi all’ordine del giorno - non parlava quasi nessuno e di approccio strutturale (e strategico) al piano comunale parlavano solo i modenesi.
Più tardi, a Bologna, l’aggettivazione “strategico” accanto a strutturale ci sembrò un modo per suggerire un modello di piano – oggi pare quasi assodato - che risultasse trasparente, selettivo, negoziale, sostenibile, integrato e che consentisse al capoluogo regionale di recuperare senza danni un ritardo di molti anni nello sviluppo delle strategie del governo urbano (e metropolitano).
La costruzione (l’impianto) di un piano strategico e strutturale siffatto, dovrebbe durare un anno o poco più, per consentire il mantenimento di quella “mobilitazione straordinaria” di energie morali, intellettuali professionali e politiche che devono centrare diagnosi convincenti e condivise e avviarle a soluzione con strumenti e strategie non solo urbanistiche.
Senza l’alibi di quadri conoscitivi ipertrofici e con una VAS/VALSAT che funzioni.
I PSC della 20 - non v’è dubbio - stanno durando assai di più. Tra i compiti di una riforma della 20 che voglia anche rispondere alle esigenze di riportare a una efficienza “solidale” il Sistema Regionale, quello di disegnare procedure e di attribuire compiti, coerenti con questa esigenza di tempestività efficace, non è sicuramente il minore.
In buona sostanza c’è da riflettere su una forma piano che non butti via – con l’acqua sporca - anni di esperienza nella gestione del piano nella sua dimensione regolativa e conformativa dei diritti (RUE+POC = piano dei suoli) ma introduca nel modo giusto quella dimensione strategica di cui avvertiamo la carenza.
C’è bisogno quindi di mettere in campo uno strumento (PSC = masterplan?) che tratti efficacemente di sostenibilità, che risolva positivamente la complessità dei rapporti interistituzionali, che agisca immediatamente sullo strumento vigente, in quanto questo sia in contrasto con quello, uno strumento che individui gli ambiti di intervento e le azioni di riqualificazione da avviare su corsie preferenziali, e che impegni gli attori politici e le discipline tecniche a rendere evidenti, e perciò stabili e condivisi, i contenuti strategici e strutturali da trasferire poi al “disegno” del piano dei suoli.
Una nuova dimensione del Piano e del suo processo, che richiede particolari investimenti in cultura, tecnologia e organizzazione per realizzarsi compiutamente, ma che non può costringere i comuni a raddoppiare tempi e costi senza che questo corrisponda ad un effettivo, proporzionale, miglioramento dei risultati.