Caro direttore,
Renato Nicolini opera una ricostruzione per lo più convincente della Roma notturna, dai "suoi" anni Settanta ad oggi, ed ha ragione nel proporre come nuovi luoghi di aggregazione giovanile l'Auditorium (attorno al quale però c'è una sorta di deserto, non un ristorante, non una buona pizzeria aperta dopo le 23), l'Ostiense e altro ancora. Mi convince meno quando parla di centro storico dove gli spazi sono ristretti e dove il rimbombo della gente che sta in strada fino all'alba diventa insopportabile (conosco persone che hanno lasciato per disperazione la casa in Santa Maria dell'Anima emigrando in Prati). Ma soprattutto aggiungerei, quale causa scatenante, alla abolizione dei piani commerciali all'epoca della giunta Rutelli una vigilanza urbana diventata la più latitante del mondo sviluppato e gli effetti perversi del decreto poi legge Bersani. Che ha liberalizzato le licenze senza salvaguardare con una norma tecnica - sottoponendo le nuove licenze ad una qualche autorità - i centri storici ora invasi, specie nelle città universitarie e del turismo, da ogni sorta di locale. Statistiche recenti ci dicono che da una parte Roma ha perso più di ogni altra città il turismo "alto", quello dei grandi alberghi, dall'altra ha visto aprire 242 nuove pizze a taglio. Perché? Perché nelle pieghe della Bersani c'è una norma la quale consente ai forni, notoriamente aperti di notte, di vendere direttamente i loro prodotti, essenzialmente pizze di vario tipo. Così abbiamo visto, per esempio a Trastevere, sparire un forno tradizionale che, di fatto, è diventato pizzeria notturna. Abbiamo cos liberalizzato la devastazione commerciale notturna dei centri storici incrementando la forma peggiore di "divertimentificio". Quella che spinge i pochi residenti rimasti a trasferirsi anch'essi altrove, decretando la fine di ogni tessuto e quindi controllo sociale. Del resto il presidente dei commercianti romani Pambianchi non ha chiesto a gran voce di allentare vincoli, prescrizioni, regole (già regolarmente calpestate) per "rianimare" i consumi nel gorgo di questa crisi che peraltro Confcommercio e Berlusconi - solo loro - negano?
Ti pongo allora un altro problema: con la recessione in atto vi sono molti locali del centro chiusi o prossimi a chiudere, facile preda, temo, dei soli che oggi hanno soldi da spendere e che sono mafiosi, camorristi, malavitosi vari, italiani e cinesi. Temo che tutto ciò, se non si corre presto ai ripari (e non ci correrà certo la giunta Alemanno votata dai bottegai), gran parte della città antica sarà conquistata da affaristi e riciclatori di denaro sporco. Già adesso assistiamo allo stravolgimento di talune strade in poche battute: via del Banco di Santo Spirito, che va verso Ponte Sant'Angelo, è stata "cinesizzata" in pochi giorni cacciando un buon antiquario e altri negozi decenti (ripagati da una buonuscita elevata) sostituiti da questi orrendi rivenduglioli di "souvenir" a prezzi infimi fra i quali campeggia un paio di boxer maschili con tricolore e pene marmoreo bene in vista. Vicino ad immagini sacre, giubilari, naturalmente. L'Italie telle quell'est, scriveva un secolo fa l'anarchico Francesco Saverio Merlino esule in Francia. Rome telle quell'est. Di notte e di giorno.
Con cordiali e amari saluti
Caro Emiliani, la tua analisi è esatta. Mi sembra che non sia distante dall’ispirazione del bell’articolo di Nicolini: anche lui esprime il timore si possa “aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti”.
É una strada, per la verità, che è già aperta e percorsa nelle città più belle e nei cenbtri storici più prezioni. Man mano che la grande pompa aspirante dei “non luoghi” svuota i centri urbani (e non solo quelli antichi) dalle attività tradizionali del piccolo commercio, legato alle esigenze quotidiane degli abitanti, i luoghi più pregiati vengono invasi da paccottiglia (la chiamano junk) e da attività assolutamente prive da ogni connessione col luogo, A volte, come a Roma, inquinate dalla malavita organizzata. Parafrasando Soru si potrebbe dire, pensando a quegli scimmiottamenti di città che sono gli outlet, che hanno costruito città-scimmie e hanno trasformato in scimmie le città esistenti. É evidente che questo è avvenuto anche perché, a partire dagli anni 80 e 90 del secolo scorso, si è gridato “via lacci e lacciuoli”, “mercato è bello” e si sono abbandonate le regole. Lo sai che a Venezia il primo atto che fece la giunta Cacciarinel 1993 fu di abrogare una delibera, approvata dalla precedente giunta Casellati, che applicava a Venezia il dispositivo di una legge nazionale (dovuta a Oscar Mammì), che avrebbe consentito il controllo delle licenze commerciali per garantire il carattere tradizionale di certe botteghe, e che avrebbe impedito la realizzazione dei McDonald e simili)
C’è anche da dire da tempo la pigrizia era subentrata, e si era affidato alle regole molto più di quanto le regole possano dare. Ricordo, ad esempio, che quando cominciò l’avanzata della grande distribuzione molti di noi, inascoltati profeti, insistettero su fatto che il piccolo commercio doveva spinto ad attrezzarsi per resistere, e associarsi per offrire al cittadino vantaggi dello stesso peso di quelli offerti dai supermercato, sia pure di diverso carattere. Forse la spinta delle potenze economiche era troppo forte, il piccolo commercio troppo arretrato, la politica già poco attenta, e quella resistenza non ebbe successo. Comunque il problema resta quello, come sostengo nell’ultimo eddytoriale. L’attuale predominio, fuori e dentro le città, di questo commercio (“non luoghi” da una parte, mercificazione e imbarbarimento e invivibilità dei centri urbani dall’altra) è il frutto di forze che nessuno sembra voler contrastare. Che andrebbero invece contrastare a partire dall’ideologia che esprimono, e che è diventata, ahimè, opinione corrente. Siamo diventati un popolo di clienti, e forse, come abbiamo la politica che meritiamo, abbiamo anche il commercio che meritiamo.