Mi diceva qualche anno fa Rosario Bentivegna, medico del lavoro, gappista romano, protagonista della battaglia di via Rasella: «Dopo la guerra, il partito disse sempre la verità su via Rasella e sulle Fosse Ardeatine; quello che non fece, fu di confutare le menzogne e le mistificazioni che erano state diffuse su quegli avvenimenti». Le menzogne e le mistificazioni le sappiamo tutti: la falsa notizia secondo cui, dopo l'azione partigiana in Roma occupata in cui morirono 33 componenti di un battaglione di polizia aggregato alle SS, i tedeschi avrebbero messo cartelli per tutta Roma invitando i «colpevoli» a consegnarsi per evitare la rappresaglia. Sappiamo, o dovremmo sapere, che questa è pura invenzione: persino il generale Kesselring, interrogato in tribunale, disse che non ci avevano mai nemmeno pensato; la rappresaglia fu decisa subito, mai condizionata alla resa dei partigiani, e fu comunicata alla popolazione solo dopo che la strage era stata compiuta.
Una delle tante ragioni per ammirare Rosario Bentivegna è che, in assenza di una chiara risposta politica e storiografica a queste menzogne, da più di mezzo secolo si fa carico puntigliosamente di ristabilire la verità, di confutare le mistificazioni, e di difendersi e reagire in ogni sede (compresi i tribunali) alle demonizzazioni di cui lui e i suoi compagni sono stati oggetto.
E' un lavoro di Sisifo, e ogni volta sembra che si deve ricominciare da capo. Stavolta, la falsificazione proviene dal gran cerimoniere dei riti televisivi, Bruno Vespa, che per qualche misteriosa ragione (o meglio: per ragioni di cassetta e per ragioni di manipolazione ideologica) ha deciso di improvvisarsi storico senza possedere neanche l'ombra dei requisiti minimi del mestiere - ma, direi, senza possedere neanche l'ombra di quella curiosità intellettuale e desiderio di verità che dovrebbe animare non solo lo storico, ma almeno il giornalista serio. Quando Nicola Gallerano parlava di «uso pubblico della storia» aveva in mente cose ben più serie che questi bestseller di quart'ordine.
Un dialogo tra sordi
Così, nella sua Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi, Vespa racconta per l'ennesima volta la vulgata antipartigiana su via Rasella senza neanche prendersi la cura di informarsi sui fatti e di leggere la bibliografia aggiornata. Perciò, ai vari errori sulla ricostruzione dell'evento aggiunge la ripetizione della solita accusa a Bentivegna e compagni di non essersi presentati in risposta ai manifesti fatti affiggere dai nazisti che li invitavano a farlo. E anche stavolta, Bentivegna prende la penna in mano e, instancabile, cortese e chiarissimo, spiega, precisa, rettifica come ha fatto centinaia di volte nella sua vita. Comincia un carteggio, prima privato poi pubblico (anche sulle pagine dell'Unità) che adesso Bentivegna, con il consenso del suo interlocutore, ha trasformato in un libro: Via Rasella la storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa (manifestolibri, pp. 116, 15), con un'introduzione puntuta e puntuale di Sergio Luzzatto, un'ennesima ricostruzione fattuale di che cosa veramente successe e poi, irritante e soffocante, il dialogo mancato fra Bentivegna che spiega e Vespa che fa finta di non capire. O forse non fa finta per niente.
Sono anni che mi occupo di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, e ogni volta mi trovo davanti allo stesso meccanismo. E' un po' come la storia del lupo e dell'agnello: c'è una conclusione precostituita e, se un argomento per sostenerla viene meno («mi intorbidi l'acqua») se ne inventa un altro, più specioso ancora («hai parlato male di me») e poi un altro e un altro e un altro, all'infinito. Lo stesso vale per via Rasella, anche nel caso di Vespa: costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono, si inventa che però i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (e non è vero neanche questo, e risulta dalle parole dello stesso Kappler), poi che i poveri poliziotti in uniforme nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia (come se vestire l'uniforme di un esercito occupante non fosse un'aggravante, per un italiano; e come se l'età media dei poliziotti del Bozen non fosse in realtà di 33 anni) e via arrampicandosi sugli specchi pur di non rinunciare all'unica cosa che gli interessa: negare il significato dell'azione partigiana e con essa di tutta la Resistenza. Per questo ha ragione Luzzatto quando parla di «dialogo fra sordi». In realtà, Bentivegna ascolta e replica, ma dall'altra parte c'è un sordo che non vuole sentire.
Qui infatti non si tratta solo di banale revisionismo, ma dell'idea di una continuità storica in nome dell'«odio» e della «guerra civile» che accomuna le leggi razziste, la guerra partigiana, gli anni di piombo e l'opposizione a Berlusconi dentro un unico paradigma: sia i partigiani che attaccavano militarmente i nazisti sia il centrosinistra che attacca politicamente Berlusconi sarebbero mossi dagli stessi impulsi. Chiaro che in questa continuità la Resistenza è una spezzatura: infangare la Resistenza, dunque, non serve solo a erodere ulteriormente l'eredità dell'antifascismo ma soprattutto a fare dell'opposizione a Berlusconi l'espressione di atavismi profondi e irrazionali, il «fiume carsico» (scrive Vespa) di una guerra civile ora esplosiva, ora strisciante. Come fa notare Luzzatto nell'introduzione, elencando i titoli delle annuali strenne di Vespa: «presi uno per uno, i titoli dei libri di Vespa scandiscono ogni volta un presunto momento epocale, quando non suggeriscono un'emergenza nazionale o addirittura una crisi rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, essi alludono alla consolante evidenza per cui tutto cambia, più tutto è la stessa cosa...»
Alla fine, Vespa non sa più che pesci prendere, e si limita a ripetere che «l'attentato di via Rasella è un gravissimo errore». La risposta finale di Bentivegna è tagliente: «Credo nella sua buonafede - concede - ma il problema dei problemi è che lei ha dato una versione non corretta dei fatti, condita di insinuazioni e ambiguità, perché aveva orecchiato le consuete mistificazioni e le ha riportate senza la necessaria verifica».
Intelligentemente, Bentivegna non si limita a rettificare la versione con corretta dei fatti, ma smaschera anche l'uso non corretto, strisciante, del linguaggio: contesta il termine «rappresaglia» applicato alle Fosse Ardeatine (e ha ragione, tecnicamente e giuridicamente: secondo il tribunale militare italiano, non si trattò di rappresaglia bensì dio «omicidio continuato»), coglie le implicazioni retoriche di espressioni come il «gesto» che gli viene attribuito, come se non si fosse trattato di un'azione di guerra ma dell'alzata di capo di un isolato irresponsabile, smaschera il presupposto implicito secondo cui avrebbe dovuto «pentirsi» di quello che aveva fatto. E d'altra parte, l'intera modalità comunicativa di Vespa, dal linguaggio del corpo in Tv alla retorica dei suoi libri, reca nel degrado del linguaggio il segno del danno profondo che arreca alla nostra cultura. In questo senso, il lavoro di Bentivegna non è solo l'ennesima doverosa puntualizzazione storica, ma anche un atto importante di resistenza, sia pure con la minuscola, allo strapotere egemonico del discorso televisivo: i libri di Vespa sono vangelo non perché siano attendibili ma perché il loro autore sta in Tv. Qualche tempo fa, sulla metropolitana di Roma, c'era una ragazza sprofondata nella lettura di uno dei tomi di Vespa, con tanto di evidenziatore. Non sono riuscito a capire se quello che sottolineava fossero gli sfondoni del libro, o quelle che lei scambiava per storiche verità o perle di saggezza. Temo che sia buona la seconda.
Pagine responsabili
Il libro di Vespa sulla metropolitana è l'aggiornamento dei canali attraverso cui si è formato il senso comune antipartigiano su via Rasella: riviste da parrucchiere, pamphlet fascisti, dicerie incontrollate. Tutti canali troppo a lungo considerati al disotto dell'attenzione degli storici seri, e persino della politica seria; per questo, hanno potuto continuare a diffondersi per decenni, navigando sotto il radar della vigilanza culturale e del dibattito storiografico. Temo che Vespa sia la stessa cosa: troppo poco serio perché gli storici seri si prendano la briga di smontarlo pubblicamente come sarebbe loro dovere. Anzi, persino rispettabili istituzioni romane hanno ritenuto opportuno allestire presentazioni e dibattiti, come se questi libri fossero una cosa seria.
Per fortuna ci sono persone come Rosario Bentivegna. E per fortuna questo suo libro è accompagnato, stavolta, dall'intervento di uno storico serio che prende atto del rischio di una memoria storica affidata agli ignoranti e ai manipolatori. Quella fra Vespa e Bentivegna non è una battaglia ad armi pari, dato lo strapotere mediatico dell'uno e la sostanziale solitudine dell'altro. Sarebbe il caso di dare una mano a Bentivegna, perché qui non è in gioco solo la sua personale responsabilità, né la moralità della resistenza, ma proprio la nostra capacità di rapportarci criticamente alla storia e di usare responsabilmente il linguaggio. Scrive Luzzatto: «Lo scopo del gioco (di Vespa, ma - aggiungerei io, di tutto quello che lui rappresenta, n.d.r.) è la banalizzazione retrospettiva dei valori e dei disvalori, dei meriti e delle bassezze, delle ragioni e dei torti. La durata del gioco resta da determinare; ma finché uomini come Rosario Bentivegna conserveranno la forza per opporvisi, uomini come Bruno Vespa faranno bene a non sentirsi la vittoria in tasca».
Lacrime e mantra antipartigiano
di AL. PO.
«Fosse Ardeatine: e Gasparri pianse»: così intitola il Corriere della Sera di sabato l'articolo sulla presentazione della Buona battaglia, il buon film tv di Gianfranco Albano su don Pappagallo, ammazzato con altri 334 alle Fosse Ardeatine (in onda domenica e lunedì su Raiuno).
A me della commozione del signor Gasparri non potrebbe importare di meno. Dov'è la notizia? E' un film commovente, la notizia sarebbe se non si commuovesse. Mi pare del tutto normale che davanti a un massacro di centinaia di persone anche un (ex?) fascista si addolori: sono esseri umani anche loro, e poi gli viene facile da quando anche loro hanno preso ad atteggiarsi a vittime. Specie poi se la vittima in primo piano è un prete. Me ne importerebbe qualcosa, però, se non il privato signor Gasparri ma l'uomo politico onorevole Gasparri partisse da queste lacrime per ripensare al significato di tutta quella storia. E invece no: fra una lacrima e l'altra, ripete imperterrito la vulgata della destra estrema, il mantra antipartigiano: sui gappisti romani «grava un marchio d'infamia» perché «non si consegnarono». Aldo Cazzulo, il giornalista, obietta flebilmente: «Guardi Gasparri che da parte nazista non ci fu nessun invito ai partigiani a consegnarsi». E lui impermeabile: «Comunque, gli attentatori di via Rasella non ebbero lo stesso coraggio di Salvo D'Acquisto». Da questo momento, della commozione di Gasparri non c'è più traccia, e l'intervista si limita a registrare senza commenti o rettifiche i soliti luoghi comuni: il negazionismo sui crimini italiani in Libia, le foibe, l'amicizia coi governanti di Israele, le «sentinelle veltroniane» alla Rai, Alessandra Mussolini che «come idee è alla nostra sinistra»...
Ormai dovremmo saperlo tutti che i nazisti procedettero alla strage in meno di ventiquattro ore senza nemmeno cercare i partigiani e senza mettere alcun avviso pubblico (questo lo confermarono in tribunale gli stessi Kappler e Kesselring); in nessun momento pensarono di condizionare l'esecuzione del massacro alla loro eventuale consegna; tutti i bandi affissi a Roma fin dall'8 settembre minacciavano punizioni gravissime ai responsabili di azioni contro i nazisti ma mai che avrebbero punito altre persone al loro posto. Il loro scopo non era di punire i «colpevoli» ma terrorizzare Roma e inquinare la nostra memoria. La cosiddetta «rappresaglia» non era mai stata annunciata o minacciata: è pertanto falsa anche l'illazione ripetuta da Gasparri secondo cui i partigiani forse avrebbero attaccato i tedeschi proprio per provocarla, come se il rapporto fra azione partigiana e rappresaglia fosse automatico (e come se via Rasella fosse stata l'unica azione compiuta contro i tedeschi: se Gasparri, fra una lacrima e l'altra, avesse guardato il film, avrebbe saputo che non era vero). Persino il tribunale militare italiano riconobbe che non si trattò affatto di una «rappresaglia» (che qualche regola l'avrebbe) ma di un vero e proprio «omicidio continuato».
Purtroppo la tv ci ha abituato a chiamare «giornalismo» la mera amplificazione delle parole dei notabili di turno, a privilegiare l'esibizione di lacrime e «sentimenti» più della precisione dell'informazione, e a considerare notizie non i fatti ma i commenti dei politici. Così il Corsera pensa che la cosa principale sia la «commozione» di Gasparri; sulle sue autorevoli pagine il senso di un film su una strage nazista si rovescia diventando l'occasione per esaltare i buoni sentimenti di un (ex?) fascista e permettergli di ribadire un'offensiva menzogna antipartigiana. Bel paradosso.
Tutti abbiamo apprezzato la presa di posizione del direttore del Corriere della sera nella vicenda elettorale. Ma se non vogliamo che l'unico collante della coalizione che ha vinto sia il rigetto di Berlusconi, se vogliamo sperare che questa vittoria duri e dia frutti, dobbiamo cercare anche qualche cemento ideale, qualche comune terreno morale che ci tenga insieme. Non credo che questa unità morale di fondo la possiamo trovare al di fuori di un antifascismo cosciente, critico dove serve ma intransigente sul piano della conoscenza e dei principi: quello che un tempo si chiamava l'arco costituzionale, più meno. Dando spazio quasi incontrollato alle falsificazioni lacrimose di un (ex?) fascista come Gasparri, il Corriere rischia non solo di avallare un falso storico, ma di scavarsi sotto i piedi il precario terreno politico su cui tutti quanti ci reggiamo faticosamente.
Per di più, Gasparri non solo è «tanto umano» ma anche pluralista: «La mia battaglia? Raccontare in tv tutte le storie». Giusto. Perciò Gasparri sostiene tutto contento che la fiction su Sacco e Vanzetti (Canale 5) «è stata un flop» (evidentemente, due innocenti ammazzati sulla sedia elettrica non raggiungono la soglia gasparriana della commozione), e ci promette fiction sui futuristi, sul libro di Pansa (of course), e sull'ennesimo prete, don Gelmini. Sostiene che sul set del film sulle foibe le sentinelle veltroniane vegliavano a che non si usasse la parola «comunisti». Sarà senz'altro vero; scrivo dopo aver visto solo la prima puntata del film su don Pappagallo e la parola «comunista» non l'ho sentita; chissà se, prima che finisca, il regista Albano avrà il permesso di dirci che il Gioacchino «allievo» e compaesano di don Pappagallo era, appunto, comunista. Se tutte le storie vanno raccontate, avremo mai una fiction su Gioacchino Gesmundo, partigiano, comunista, professore (maestro di Ingrao al liceo di Formia, poi docente al Cavour a Roma)?
Comunque, Gioacchino Gesmundo e don Pietro Pappagallo, nati a Terlizzi, provincia di Bari, ammazzati alle Fosse Ardeatine, Roma. Vorrei condividere le parole che Antonio Pappagallo, nipote di don Pietro (che purtroppo non è vissuto per vedere questo film che gli sarebbe piaciuto) mi raccontò di aver detto ai ragazzi del loro paese: «Prendete Gesmundo e don Pietro che sono paesani vostri e immaginate un imbuto... che buttano dentro questa miscela di due opposte... teoricamente: mio zio cattolico, prete e Gesmundo laico - insomma di idee laico, comunista che era... Come mai queste due persone escono da questo imbuto e voi non sapete dire se questo è don Pietro o è Gesmundo, perché tutte e due le loro entità si confondono, si può dire che (Gesmundo) è più prete dell'altro e (don Pietro) è più comunista dell'altro nel senso che per comunista vogliamo intendere l'altruismo del prossimo?»
Un post scriptum su Salvo D'Acquisto. La sua storia è sistematicamente evocata in contrapposizione con quella dei gappisti: partigiani comunisti che «non si presentarono», carabiniere cattolico che «si offrì». In realtà, neanche la storia di D'Acquisto è andata come ce l'hanno raccontata. Tanto i documenti ufficiali dell'arma dei carabinieri quanto la memoria di chi era insieme a lui quel giorno confermano che lui non «si presentò» affatto offrendo il petto ai nazisti, come nei quadri esposti in tutte le stazioni dei carabinieri, ma fu rastrellato insieme con gli altri ostaggi. Quando si disse unico responsabile (di un attentato mai avvenuto) era anche lui sul punto di venire ucciso. Con un gesto comunque nobilissimo, e con una lucida altruistica intelligenza, capì che - dato che comunque sarebbe stato ucciso - tanto valeva «confessare», in modo che morendo lui avrebbe salvato gli altri. Fin qui i fatti.
Adesso un'ipotesi. Credo che i nazisti si fossero ormai resi conto che non c'era stato nessun attentato: le bombe che avevano ferito due loro militi non erano un'azione di resistenza ma un residuato di pescatori di frodo. Stavano per ammazzare ventidue persone senza che ce ne fossero i presupposti, e anche a un nazista questo dà fastidio, immagino. Però, se avessero lasciato andare gli ostaggi allineati davanti alla fossa comune che gli avevano scavare, rischiavano di perdere la faccia. Salvo D'Acquisto gli offre una via d'uscita: possono dire di avere trovato il «colpevole» ed evitarsi una strage inutile. Un gesto nobile, che i miserabili venuti dopo avviliscono servendosene per infangare il tessuto antifascista della nostra democrazia.