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Giampiero Gramaglia
Ragion di stato. Silenzio romano alle urla dal deserto
6 Luglio 2010
Articoli del 2010
Grazie alla denuncia dell’Unità qualcuno sente la gravità dello scandalo e la responsabilità dell’Italia: non chi ci rappresenta. Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2010

Gli sos via sms dal deserto di Libia non fanno suonare le sirene d’allarme né a Palazzo Chigi né alla Farnesina. L’Italia della gente di buona volontà, l’Italia delle organizzazioni non governative rilancia le richieste d’aiuto disperate che arrivano dal centro di detenzione di Braq, vicino a Sebah, nel mezzo del Sahara, dove attualmente la temperature raggiungono i 50 gradi: lì, nudi da giorni, molti coperti del proprio sangue, pestati, feriti, 245 rifugiati eritrei, fra cui 18 donne e bambini, rischiano la vita, in condizioni di detenzione durissime, dopo essere stati trasferiti per punizione dal campo di Misurata. La vicenda è stata segnalata e seguita, in questi giorni, con particolare attenzione dell’Unità. Le voci da Braq sono frammentarie, ma tutte danno un quadro allucinante di maltrattamenti e precarietà: alcuni detenuti per la disperazione avrebbero tentato il suicidio bevendo acido.

Il Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati, e altre sigle si fanno megafono dei disperati appelli all’intervento internazionale dei rifugiati eritrei, in particolare “dopo i maltrattamenti subiti negli ultimi giorni”. Ma dai palazzi del Potere, fedeli alla consegna dell’amicizia con il regime del dittatore libico Muhammar Gheddafi e rispettosi del principio di non ingerenza, non vengono echi. Intendiamoci, in casi come questi la discrezione può essere la scelta giusta: proprio il Cir dichiara di “avere motivo di pensare che il governo italiano si stia muovendo”, dopo una telefonata del ministro degli Esteri Franco Frattini al presidente del Cir Savino Pezzotta. E alla Farnesina non si esclude una presa di posizione europea.

Ma non c’è tempo da perdere. Amnesty International denuncia i pericoli cui i rifugiati eritrei andrebbero incontro se fossero ‘deportati’ in patria: “la tortura, la punizione riservata ai colpevoli di ‘tradimento’ e ‘diserzione’” e la vita. Per loro, la cosa più sicura sarebbe il trasferimento in Italia e un’accoglienza nel nostro Paese. Ma siamo ben lontani da una prospettiva del genere: da quando la Libia ha chiuso l’ufficio dell’Onu per i rifugiati a Tripoli, le prospettive di quanti vogliono fuggire a regimi repressivi o semplicemente alla povertà sono peggiorate.

Nell’immediato, le organizzazioni umanitarie chiedono di potere rendere visita al centro di Braq e di potere prestare cure di emergenza agli eritrei feriti e a quanti hanno contratto malattie infettive. Poi c’è la preoccupazione di evitare che siano rimpatriati, nel rispetto del principio internazionale del ‘non respingimento’ verso Paesi a rischio tortura e di maltrattamenti. Un’annunciata visita dell’ambasciata di Eritrea a Tripoli nel centro di Braq è considerata una minaccia di deportazione, o di rappresaglia contro le famiglie dei rifugiati rimaste in Eritrea: dei contatti diplomatici in corso danno notizia fonti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a Tripoli. Dal Parlamento, vengono richieste di spiegazioni al ministro Frattini e al ministro dell’interno Alberto Maroni, che, più della situazione in Libia, s’interessa del rischio d’immigrazione via Malpensa: “È la nuova Lampedusa”, dice, in base a uno studio secondo cui con 15mila euro si compra un passaggio aereo da un Paese extracomunitario a un grande scalo Ue – una cifra da capogiro, per i disperati delle carrette del mare’.

“Dobbiamo risolvere il dramma degli eritrei in Libia e dobbiamo anche evitare che casi del genere si ripetano”, afferma il senatore Pd Roberto Di GiovanPaolo. Sotto accusa è l’accordo con la Libia, fiore all’occhiello del Governo Berlusconi, perché riduce il flusso dei clandestini, a detrimento, però, dei principi umanitari. “L’intesa con Tripoli non funziona – denuncia Di Giovan Paolo-: quando venne firmata, perché non si parlò anche di diritti umani?”

La fase più tragica dell’odissea dei 245 rifugiati eritrei cominciò il 30 giugno: dopo un tentativo di fuga la sera prima, un centinaio di soldati e poliziotti libici, pesantemente armati, fecero irruzione nel centro di detenzione di Misurata. Dopo un pestaggio seguito dal ricovero di 14 detenuti, tutti i malcapitati furono caricati su due container e trasferiti con un viaggio blindato di 12 ore a Sabha. Lì, le condizioni di detenzione sono drammatiche: sovraffollamento, acqua e cibo insufficienti, servizi igienici inadeguati.

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