Il manifesto, 18 gennaio 2013.
Nella definizione di «impolitico» non c'è, ovviamente, nessuna volontà (né possibilità) di riferimento a Thomas Mann, il grande «impolitico» (o forse, meglio, «apolitico») degli inizi del Novecento. Molto più semplicemente la definizione è legata al dubbio, e dubbio reale, che ha colto l'autore di questa nota, relativamente alla sua capacità di comprendere davvero i nessi che legano il momento analitico al momento della sua traducibilità politica, a quell'aspetto comunemente indicato con il termine «tattica». Credo, infatti, di concordare, nella sostanza, con l'analisi di «fase ciclica» (da non confondere con l'analisi di «contingenza»), sviluppata in un periodo piuttosto lungo da autorevolissimi amici e compagni come Asor Rosa, Bevilacqua, Tronti.
Da notare il fatto che personalità intellettuali che sul piano analitico sono state, a ragione, acutamente critiche della validità conoscitiva della terminologia «progressista», ne ripropongano l'uso come orizzonte politico di uno schieramento, una sorta di identità comune per realtà culturali e politiche assai diverse. In questa maniera si finisce per mettere insieme due aspetti che possono agevolmente rimanere separati: a) la questione elettorale immediata, b) i percorsi di costruzione/ricostruzione di una sinistra non genericamente progressista. È ovvio che un governo Bersani è preferibile non solo ad una qualsiasi riedizione dell'orrore berlusconiano, ma anche, nonostante tutto, ad un nuovo governo Monti. Su tale piano lo schieramento di centrosinistra si provi a cercare un qualche rapporto con la lista di «Rivoluzione civile» per evitare il «pareggio» al Senato. La scelta di tattiche elettorali per favorire un risultato più avanzato è certamente da perseguire. L'esistenza ed il rafforzamento di un'area politica e culturale del tutto autonoma rispetto al centrosinistra rimane, però, elemento fondamentale di una prospettiva di ben più lungo periodo.
2) Cito ancora Tronti ed Asor Rosa. Il Tronti che sostiene che «una sinistra che non ha il coraggio di dichiararsi erede della storia del movimento operaio non merita di esistere». L'Asor Rosa che ritiene necessaria prima un'opposizione alla «monumentale macchina dell'accumulazione», poi un processo di riconversione «in base ad una diversa scelta». Che rapporto c'è tra il panorama analitico sotteso ad affermazioni di tal genere e l'indicazione di stringersi «a coorte» intorno al Pd? A mio parere nessuno. La relazione tra le due affermazioni suddette, invece, risulta estremamente chiara.
La storia del movimento operaio è stata moltissime cose insieme, ma ormai possiamo cogliere con tutta evidenza il significato profondo di una vicenda durata quasi due secoli. Il movimento operaio, nella molteplicità delle sue logiche organizzative, in maniera a volte consapevole a volte inconsapevole, si è manifestato come una forma della critica dell'economia politica operante nella complessa struttura dei rapporti sociali e politici. Proprio per questo ha potuto avere la funzione fondamentale di opposizione alla «monumentale macchina dell'accumulazione». Proprio per questo ha potuto, in parte, «civilizzare» le logiche maggiormente polarizzanti di alcune delle fasi di accumulazione capitalistica.
L'eredità di tale storia deve misurarsi, quindi, con le capacità che ha la dimensione analitica derivata dalla critica dell'economia politica di spiegare l'odierna fase di accumulazione, la fase del finanzcapitalismo. Ciò è necessario, ma con tutta evidenza non sufficiente. Senza i fondamentali nessi con le forme organizzative, politiche e sociali, oggi possibili, e nessi non contraddittori, il senso di quella storia è inevitabilmente perduto.
Ho davanti a me un recente libro di Piero Bevilacqua ("Il grande saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo", Laterza, 2011). Si tratta di un testo assai interessante. Da notarsi in particolare, nella logica di questo articolo, il capitolo terzo su "I nuovi scenari del capitale". Un esempio felice e riuscito di utilizzazione della categoria marxiana della «caduta tendenziale del saggio del profitto» nell'analisi del capitalismo dei nostri tempi. Un Marx, dice Bevilacqua, che ha «la limpidezza e la presa sulla realtà di un nostro contemporaneo» (p.70). «La condizione attuale del capitalismo - argomenta l'autore - richiede trasformazioni radicali.» «Una riorganizzazione su base di massa e a scala progressivamente globale del conflitto sociale (...), mentre le forze che dovrebbero promuoverlo appaiono (...) rassegnate a gestire depressi orizzonti». (p. 82) Se leggiamo la Carta d'intenti del Patto dei democratici e dei progressisti troviamo la conferma immediata di quali siano le forze «rassegnate a gestire depressi orizzonti». E non per il carattere volutamente «realistico» e «moderato del testo» (realismo e moderazione fanno parte della necessità politica), bensì perché l'impianto analitico sotteso al documento è l'esatto rovescio di qualsivoglia presupposto culturale che mantenga anche un timido legame con l'economia critica.
Non c'è niente di dottrinario nel ricercare una relazione (come detto con tutte le mediazioni opportune) tra il modo di pensare il rapporto economia-società e le scelte di politica economica. Senza una sostanziale condivisione dei punti cardine del pensiero economico dominante non sarebbero state possibili scelte tanto fondamentali e tanto dirimenti come la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e l'accettazione del fiscal compact.
Piero Bevilacqua, al termine di un articolo fino a quel punto del tutto condivisibile ("A grandi passi verso la Grecia", il manifesto, 06/12/2012), ci chiede di non «dare credito alla carta di intenti delle primarie del centro sinistra». Di non guardare alle «parole», bensì alla «realtà». In sostanza, a suo parere, il Pd e Sel non applicheranno quello che scrivono e dicono, pena la distruzione dell'economia e della società italiane e, dunque, anche del senso della loro presenza. Ho molti dubbi sul fatto che Pd e Sel possano condividere tale punto di vista È vero che il mestiere di Bevilacqua e mio (quello di studiosi di storia) ci ha insegnato a leggere qualsiasi testo in «controluce», a non scambiare la «retorica» con la «prova». Nel caso specifico, però, mi pare che le «parole» e le «prove» del passato, anche assai recente, siano decisamente garanti dell'attendibilità di quel testo anche per il futuro. Ed inoltre la scelta di Giampaolo Galli e Carlo Dell'Aringa come candidati Pd di che cosa è «spia»? Galli e Dell'Aringa non sono un Calearo qualsiasi, bensì autorevoli rappresentanti tanto del livello teorico che di quello pratico dell'economia mainstream. E questo è, appunto, il nodo dell'autonomia culturale (e dunque politica) della sinistra. Certo il tempo del «paradiso dei padroni», per dirla con Serge Halimi, mal si concilia con le retoriche dell' «assalto al cielo». Ma se non si rinuncia allo sforzo di «cercare ancora» nella critica dell'economia politica, possiamo comunque aspirare a qualcosa di diverso rispetto al «profumo di sinistra»
Postilla
Il problema è comprendere quale, dei risultati elettorali ragionevolmente ipotizzabili rendano meglio praticabile il compito, per la sinistra, di"cercare ancora", e sperabilmente trovare, la definizione di un'economia e una società diverse, nonché, e soprattutto, di individuare al tempo stesso le forze sociali capaci di costruirla.