Insabbiare
di Enzo Mauro
Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, per chiedere ai giudici di fermarle, in modo che non sia più possibile chiedergli conto di vicende che non ha mai saputo chiarire: insabbiando così – almeno in Italia – la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente.
è la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte. Ed è la misura delle difficoltà e delle paure che popolano l’estate dell’uomo più potente d’Italia. La questione è semplice: poiché è incapace di dire la verità sul "ciarpame politico" che ha creato con le sue stesse mani e che da mesi lo circonda, il Capo del governo chiede alla magistratura di bloccare l’accertamento della verità, impedendo la libera attività giornalistica d’inchiesta, che ha prodotto quelle domande senza risposta.
In questa svolta c’è l’insofferenza per ogni controllo, per qualsiasi critica, per qualunque spazio giornalistico d’indagine che sfugga al dominio proprietario o all’intimidazione di un potere che si concepisce come assoluto, e inattaccabile. Berlusconi, nel suo atto giudiziario contro Repubblica vuole infatti colpire e impedire anche la citazione in Italia delle inchieste dei giornali stranieri, in modo che il Paese resti all’oscuro e sotto controllo. Ognuno vede quanto sia debole un potere che ha paura delle domande, e pensa che basti tenere al buio i concittadini per farla franca.
Tutto questo – la richiesta agli imprenditori di non fare pubblicità sul nostro giornale, l’accusa di eversione, l’attacco ai "delinquenti", la causa alle domande – da parte di un premier che è anche editore, e che usa ogni mezzo contro la libertà di stampa, nel silenzio generale. Altro che calunnie: ormai, dovrebbe essere l’Italia a sentirsi vilipesa dai comportamenti di quest’uomo.
La menzogna come potere
di Giuseppe D’Avanzo
Avanzare delle domande a un uomo politico nell’Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un’offesa che esige un castigo? L’Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d’imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all’opinione pubblica. È interessante leggere, nell’atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del consiglio sono «retoriche, insinuanti, diffamatorie».
Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché «non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l’idea che la persona "interrogata" si rifiuti di rispondere». Sono diffamatorie perché attribuiscono «comportamenti incresciosi, mai tenuti» e inducono il lettore «a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti». Peraltro, «è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l’offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio "domande" non sono».
Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.
Non c’è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c’è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.
È utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. È Veronica Lario ad accusare Berlusconi di «frequentare minorenni». È Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l’Egoarca giura di aver incontrato la minorenne «soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori». Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell’autunno del 2008 guardandone un portfolio); l’ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009). La terza domanda chiede conto al presidente del consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano "papi". La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai "storia nota", ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità – un fatto – è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio. L’ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. È Berlusconi che annuncia in pubblico «un progetto eversivo» di questo giornale. È un fatto. È lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l’interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la "sovranità popolare"? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie. La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. È Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, «non sta bene». È un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.
Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi – anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri – una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. È un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l’interesse pubblico dell’affare è evidente.
Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l’opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all’ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un’opinione che già s’era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un’altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l’irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria. La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. È il paradigma di una macchina politica che intimorisce. È la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. È una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c’è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest’affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell’epoca dell’immagine, della Finktionpolitik? Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l’opinione pubblica italiana o il «carnevale permanente» l’ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un’informazione conformista. La questione è in fondo questa: l’opinione pubblica può fare delle domande al potere?
L'APPELLO DEI TRE GIURISTI
L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.
Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.
Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.
Franco Cordero, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky