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Gianluca Di Feo
Quel vento gelido sui migranti
13 Marzo 2017
2015-EsodoXXI
Sempre più grave il dramma delle persone che fuggono dalle guerre e dalle carestie che il Primo mondo ha provocato e che adesso respinge, con le armi proprie e con quelle dei suoi alleati libici.
Sempre più grave il dramma delle persone che fuggono dalle guerre e dalle carestie che il Primo mondo ha provocato e che adesso respinge, con le armi proprie e con quelle dei suoi alleati libici.

la Repubblica, 13 marzo 2017

Il clima sta cambiando, anche in Italia. Lo si capisce dalle parole, scritte nei documenti ufficiali ed evocate nel dibattito politico: quelli che erano semplicemente “migranti” adesso sempre più spesso vengono chiamati “irregolari” o “clandestini”. Termini in voga negli anni di Silvio Berlusconi premier, con un governo apertamente sostenuto da un partito a vocazione xenofoba quale la Lega Nord.

Dopo di lui però c’era stata una drastica inversione di rotta. Il dramma dei profughi in fuga dalla Siria, le tragedie dei naufragi al largo di Lampedusa avevano spinto l’intero Paese ad aprire le braccia: il 2014 è stato l’anno di Mare Nostrum, la più grande operazione umanitaria della storia recente, con 100 mila persone soccorse nel canale di Sicilia. Salvare e assistere gli esseri umani era l’unica priorità.Poi l’Europa ha cominciato a chiudere le porte. E adesso chi arriva sulle coste italiane difficilmente riesce ad andare oltre: le frontiere di Francia e Austria sono sbarrate, viene obbligato a rimanere in una nazione alle prese con una crisi economica e con una disoccupazione altissima.
Soccorsi e sbarchi continuano - 181 mila nel 2016, altri 15.760 dall’inizio del 2017 - ma l’accoglienza sta diventando insostenibile per le autorità di Roma. Un problema di natura finanziaria, con la scarsità di risorse per integrare altri immigrati, ma anche una questione politica, con la prospettiva di elezioni in tempi brevi e la crescita di partiti dichiaratamente ostili agli stranieri - la Lega Nord di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni - o comunque molto più chiusi su questo tema - il Movimento 5Stelle di Beppe Grillo. C’è pure una preoccupazione crescente dei sindaci di sinistra, su cui ricade la gestione diretta dei nuovi arrivati, quasi tutti africani. Così una delle prime decisioni di Paolo Gentiloni, premier di un esecutivo di centrosinistra, è stato il varo di un pacchetto di misure per incrementare le espulsioni di “migranti economici irregolari”. «Non è assolutamente possibile continuare a ricevere chiunque sbarchi illegalmente sulle nostre coste senza imporre alcun criterio di accoglienza», ha dichiarato giovedì il ministro dell’Interno Marco Minniti.

Questa svolta è incentivata e in parte finanziata dall’Unione Europea. La Commissione di Bruxelles però non sembra avere definito una strategia per affrontare la realtà dell’esodo: non è un’emergenza ma — ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella — «un fenomeno epocale che non si può rimuovere». Le radici sono nella situazione disastrosa del continente africano, ma l’impressione è che la Ue stia puntando solo a contenere gli effetti, cercando una maniera per ridurre le partenze dalla Libia.

Un approccio tattico, carico di pericoli. Lo sfruttamento dell’esodo è l’unica industria che continua a crescere nello sfacelo libico, con una vera e propria catena di montaggio che oltre alle organizzazioni tribali della zona di Sabratha — l’epicentro degli imbarchi — coinvolge una rete di relazioni ramificata fino al cuore dell’Africa subsahariana. Più in Libia aumenta la confusione, più migranti vengono fatti salire sui gommoni. E in questi giorni il caos è massimo. Ci sono combattimenti tra milizie d’ogni genere, un po’ ovunque, con una escalation militare che vede in campo armamenti sempre più sofisticati: persino a Tripoli da settimane si segnalano scontri.

Finora tutti gli interventi della comunità internazionale si sono rivelati velleitari. Come ha sottolineato sulle pagine del think tank "Brookings" Federica Saini Fasanotti, una delle migliori analiste del marasma tripolino: «La Libia ha bisogno di un piano d’azione realistico». Quale? La stessa ricercatrice in un’audizione alla Commissione affari esteri della Camera di Washington ha parlato di «destrutturare per ristrutturare» puntando a «uno stato federale, diviso in tre larghe regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. I governi regionali potrebbero proteggere meglio gli interessi locali nella sicurezza, nella rinascita economica e nell’amministrazione ». È una prospettiva circolata lo scorso anno pure in alcune cancellerie europee e in ambienti del governo italiano, poi abbandonata per il sostegno incondizionato all’esecutivo benedetto dalle Nazioni Unite e guidato dal premier Fayez Serraj.

A un anno dall’insediamento, però, Serraj non è riuscito a creare strutture nazionali e stenta persino a imporre la sua autorità sull’intera capitale.

Per questo è assurdo pensare di fermare la marcia verso Nord confinando i migranti sul territorio libico. In una zona di guerra, ogni azione delle forze locali, inclusa la nuova guardia costiera formata dalla missione navale europea, mette a rischio la vita di uomini, donne e bambini. Gli scafisti non esitano a sparare contro le vedette per difendere il loro carico umano. E obbligano a partire anche con il mare in tempesta, aprendo il fuoco contro chi si ribella: la scorsa settimana 22 persone sono state uccise e 100 ferite. Solo stabilizzando la Libia si potrà cominciare ad affrontare il problema. Ma questo richiede un impegno dell’intera Europa, con una visione chiara: siamo davanti a un esodo che impone una risposta globale.

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