la Repubblica, 13 marzo 2017
Il clima sta cambiando, anche in Italia. Lo si capisce dalle parole, scritte nei documenti ufficiali ed evocate nel dibattito politico: quelli che erano semplicemente “migranti” adesso sempre più spesso vengono chiamati “irregolari” o “clandestini”. Termini in voga negli anni di Silvio Berlusconi premier, con un governo apertamente sostenuto da un partito a vocazione xenofoba quale la Lega Nord.
Questa svolta è incentivata e in parte finanziata dall’Unione Europea. La Commissione di Bruxelles però non sembra avere definito una strategia per affrontare la realtà dell’esodo: non è un’emergenza ma — ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella — «un fenomeno epocale che non si può rimuovere». Le radici sono nella situazione disastrosa del continente africano, ma l’impressione è che la Ue stia puntando solo a contenere gli effetti, cercando una maniera per ridurre le partenze dalla Libia.
Un approccio tattico, carico di pericoli. Lo sfruttamento dell’esodo è l’unica industria che continua a crescere nello sfacelo libico, con una vera e propria catena di montaggio che oltre alle organizzazioni tribali della zona di Sabratha — l’epicentro degli imbarchi — coinvolge una rete di relazioni ramificata fino al cuore dell’Africa subsahariana. Più in Libia aumenta la confusione, più migranti vengono fatti salire sui gommoni. E in questi giorni il caos è massimo. Ci sono combattimenti tra milizie d’ogni genere, un po’ ovunque, con una escalation militare che vede in campo armamenti sempre più sofisticati: persino a Tripoli da settimane si segnalano scontri.
Finora tutti gli interventi della comunità internazionale si sono rivelati velleitari. Come ha sottolineato sulle pagine del think tank "Brookings" Federica Saini Fasanotti, una delle migliori analiste del marasma tripolino: «La Libia ha bisogno di un piano d’azione realistico». Quale? La stessa ricercatrice in un’audizione alla Commissione affari esteri della Camera di Washington ha parlato di «destrutturare per ristrutturare» puntando a «uno stato federale, diviso in tre larghe regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. I governi regionali potrebbero proteggere meglio gli interessi locali nella sicurezza, nella rinascita economica e nell’amministrazione ». È una prospettiva circolata lo scorso anno pure in alcune cancellerie europee e in ambienti del governo italiano, poi abbandonata per il sostegno incondizionato all’esecutivo benedetto dalle Nazioni Unite e guidato dal premier Fayez Serraj.
A un anno dall’insediamento, però, Serraj non è riuscito a creare strutture nazionali e stenta persino a imporre la sua autorità sull’intera capitale.
Per questo è assurdo pensare di fermare la marcia verso Nord confinando i migranti sul territorio libico. In una zona di guerra, ogni azione delle forze locali, inclusa la nuova guardia costiera formata dalla missione navale europea, mette a rischio la vita di uomini, donne e bambini. Gli scafisti non esitano a sparare contro le vedette per difendere il loro carico umano. E obbligano a partire anche con il mare in tempesta, aprendo il fuoco contro chi si ribella: la scorsa settimana 22 persone sono state uccise e 100 ferite. Solo stabilizzando la Libia si potrà cominciare ad affrontare il problema. Ma questo richiede un impegno dell’intera Europa, con una visione chiara: siamo davanti a un esodo che impone una risposta globale.