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Filippo Ceccarelli
Quel segretario di antiche virtù ormai straniero per i suoi eredi
14 Aprile 2007
Enrico Berlinguer
Mentre i diessini proclamano: “né Craxi né Berlinguer”. Da la Repubblica del 14 aprile 2007

Si capisce perché non c´è posto per Enrico Berlinguer nell´imminente Partito democratico. E tanto vale cacciarsi subito il dente: non c´è posto per Berlinguer, perché nessuno più di lui ne rappresenta la cattiva coscienza.

Con qualche ragionevole ribalderia si può anche dire che Berlinguer resta fuori dal Pd per la semplice, ma indicibile ragione che mette in luce la lunga e folta coda di paglia di tanti dirigenti diessini. Ma se l´immagine disturba, o suona azzardata, o immotivata, si potrebbe pure cercare di dimostrare che la figura di Berlinguer non entra nel «nuovo» partito perché è ancora oggi egli incarna delle virtù che non solo nel campo della sinistra post-comunista si sono ormai quasi definitivamente estinte.

La questione va ben al di là di quella gettonatissima entità ectoplasmica che nel discorso pubblico comincia a essere questo «Pantheon». Di sicuro non sarebbe andato a genio a Berlinguer. «Non amo le semplificazioni» ripeteva spesso; e anche: «Non faccio profezie». Non per caso lo chiamavano «il Sardomuto». Berlinguer non faceva battute in televisione, tantomeno le commentava. Era difficilissimo farlo sedere sui trespoli degli studi televisivi, figurarsi se si sarebbe permesso di affrontare una questione politica solleticando la suspence del pubblico con una frasetta tipo: «Guardi cosa arrivo a dire»; né sarebbe mai scivolato nell´intimismo con quell´inciso un po´ teatrale: «E mi costa molto!». Berlinguer non salutava a pugno chiuso, riteneva quel gesto «un segno di ostilità». E´ lecito quindi ipotizzare che mai avrebbe concluso, come il risoluto Bersani: «Punto e basta».

Oggi invece ci si può tranquillamente esprimere in quel modo, anzi forse si deve. Infatti «funziona». O nessuno ci fa più caso. E comunque pazienza. Ma se la battuta di Bersani fa un po´ di notizia; se si parla ancora una volta di Berlinguer è proprio perché il personaggio non si adattava per niente a «funzionare». Era quasi impossibile «fargli dire» questo o quel giudizio, magari schiacciandolo sulle modalità espressive del presente; le rare volte che qualche giornalista ci riusciva, per quanto dotato di fascino mediatico, quell´uomo dai capelli un po´ dritti e dalle giacche lente restava comunque immerso in un presente tutto suo. «Non ha nemmeno la televisione a colori» disse una volta Craxi. Ora, sarebbe di cattivo gusto evocare campionati di popolarità e rispetto post-mortem. Ma certo quella vecchia televisione in bianco e nero nel tinello di casa Berlinguer, più che una metafora di grigio modernariato politico sembra oggi la «prova regina» - come diceva lui con spiccato accento sassarese - di una mutazione genetica che certo non fa onore all´attuale ceto politico, o politicistico, o politicante, o peggio.

Il punto è che questa trasformazione antropologica, che riguarda l´intera classe politica italiana, rischia di apparire ancora più evidente nel campo che fu suo. Lo si vorrebbe qui dire nel modo meno animoso, come pura e piatta constatazione. Ma di nuovo: Berlinguer è divenuto scomodo perché è tutto quello che i dirigenti diessini hanno smarrito: il silenzio, la compostezza, la sobrietà, la serietà, lo spirito di servizio, il senso della propria dignitosa e decorosa funzione, il disdegno dell´omaggio e della «comunella» con gli avversari, la concezione alta non solo della politica, ma anche del potere. In un´intervista a Giovanni Minoli, che gli chiese cosa pensava del potere, se gli piaceva, Berlinguer, senza muovere un muscolo del volto, ma con un´intensità niente affatto minacciosa, rispose che il potere gli poteva anche piacere, «ma come possibilità di far avanzare gli ideali in cui crediamo io e i miei compagni».

Si noti la formulazione. In questo senso, pare addirittura di scorgere una qualche proporzione matematica. Ai suoi tempi Berlinguer era il «noi» nella misura in cui i dirigenti post-comunisti sono oggi un´accolita di «ego» per lo più arroventati e quindi sempre disposti a farsi del male l´uno con l´altro. E tutto questo non significa che egli sia da considerare il Padre Pio del comunismo italiano, ma certo conosceva e praticava doti che oggi non sembrano molto in voga dalle parti di via Nazionale, o nelle fondazioni limitrofe. La prima delle quali doti potrebbe essere, ad esempio, l´umiltà. E la seconda, sempre almanaccando, la tenuta psicologica. E la terza, se è consentito divagare dai massimi sistemi, la gentilezza, il garbo, il tratto umano.

Poi sì, certo, si capisce, c´è la politica, c´è la morale, c´è la guerra fredda. Su sulla «storia», sulle scelte di Berlinguer, sui suoi ritardi, sui suoi errori, sulla rigidità, la doppiezza, gli attuali oligarchi del Botteghino potrebbero utilmente intrattenere quel resta di un antico partito. Il compromesso, l´austerità, lo strappo, la musata sulla scala mobile, la diversità. Ma lui era diverso davvero, anche come stile, anche come dirigente, anche come uomo. E su questo i capi diessini non dicono molto. Anzi, a metterla giù dura, l´impressione è che oggi Enrico Berlinguer è diventato ingombrante perché sta lì a ricordargli, e nel modo meno simpatico, le ragioni originarie del loro stesso impegno politico. Ragioni che - via, lo ammettano! - si sono, come dire, un po´ indebolite. Ragioni che si sono attenuate, «modernizzate», «laicizzate». E anche vero rientra nel novere delle cose che possono e a volte devono accadere. Ma al tempo stesso, modernizzandosi e laicizzandosi, quell´impulso primigenio, quella voglia tutta giovanile di battersi per la povera gente - il Berlinguer partecipò giovanissimo ai «moti del pane», guidando la mobilitazione di gente che aveva fame - ecco, morto lui, in tanti e tanti ex giovani quadri del Pci quelle ragioni si sono aperte a tante e tante altre cose non proprio berlingueriane.

Berlinguer è morto nel 1984, e nel corso di questi 23 anni è stato tirato da una parte e dall´altra, tagliato a fettine, esposto sulle bancarelle congressuali; e poi pubblicato postumo, soggetto di libri scritti da futuri ministri, sindaci e presidenti a loro immagine e somiglianza, ma a loro uso e consumo. Troppo commemorato e insieme dimenticato a forza, difeso dai parenti, lodato dagli avversari (Andreotti, Romiti, Montanelli). Ma in fondo per comprendere Berlinguer - e quel che un tempo si chiamava popolo c´è riuscito meglio di tanti esponenti del suo ex gruppo dirigente - bastano quelle ultime immagine sul palco di Padova. Le parole smozzicate, il fazzoletto sul volto, e lui che voleva continuare. Un ricordo che non si riesce proprio a scartare. Anzi, forse stai a vedere che è proprio in questa memoria stralunata, ma piena di poesia che non c´è posto per il Partito democratico.

A Enrico Berlinguer è dedicata in eddyburg una cartella di scritti suoi e su di lui

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