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Francesco Erbani
Quel sacco di Palermo che ha cancellato il mito della Conca d'Oro
22 Ottobre 2012
Altre città italiane
Dalla recensione del volume di Barbera sul paesaggio palermitano, la storia della desolazione di un territorio unico al mondo devastato dalla speculazione in pochi decenni. La Repubblica, 22 ottobre 2012 (m.p.g.)

“Conca d’oro” è il libro scritto da Giuseppe Barbera che ripercorre la storia del paesaggio di Palermo dalle origini fino alla degradazione dei nostri giorni, dopo anni di speculazione edilizia. Il saggio è pubblicato da Sellerio nella collana “La memoria” (pagg. 168, euro 12)

Come è potuto accadere? Come è potuto accadere che la Conca d’oro in cui è adagiata Palermo, la conchiglia «più bella di quella nella quale Venere fu portata attraverso il placido mare » (così cantava un poeta nel Quattrocento), il paesaggio di giardini e di frutteti, di fatiche umane e di strabilianti innovazioni tecniche, di biodiversità e di dolcissimi mandarini, il luogo che fece dire a Goethe che «chi ha visto tutto questo non lo dimentica più», com’è potuto accadere che la Conca d’oro, fitta d’alberi già nel V secolo avanti Cristo (racconta Diodoro Siculo), fra il 1955 e il 1975 sia stata sepolta da trecento milioni di metri cubi? Come è potuto accadere, se lo domanda Giuseppe Barbera, agronomo palermitano, professore di Colture arboree, e il suo angoscioso quesito rimbalza in ognuna delle centoquaranta pagine di Conca d’oro, un libro scritto per Sellerio che non è solo la storia di un luogo.

È anche una storia letteraria, una mitografia, un repertorio fra quelli che meglio documentano quanto la natura correttamente manipolata dall’uomo possa dare materiali alla facoltà dell’immaginazione. Ed è la storia di un simbolo mediterraneo, di una comunità vegetale la cui unità è fornita dal rapporto di diverse colture, perché solo la diversità, la complessità del disegno e delle produzioni assicurano benessere, prosperità, bellezza e armonia.

E sono esattamente queste le qualità che il sacco di Palermo, un misto di mafia, affari, politica e pessima amministrazione, cancella nel volgere di pochi anni con crudeltà sistematica, nel silenzio della cultura accademica e delle professioni rotto soltanto dalle denunce del giornale L’Ora.

Al Piano regolatore è sostituito un più efficace Piano di ricostruzione. Si sfrutta l’emergenza abitativa (120 mila vani distrutti dalle bombe) per dislocare quartieri inospitali sulle aree a maggiore seduzione speculativa. Nobili e grandi borghesi lottizzano ville e giardini e le disseminano di fungaie in cemento. Scaltri proprietari regalano al Comune piccole porzioni che, opportunamente solcate da strade, illuminazione e fogne, valorizzano il resto del possedimento. Le ville liberty di Ernesto Basile vengono demolite in una notte, l’ultima prima che si possano applicare leggi di salvaguardia. Sono gli anni di Salvo Lima e Vito Ciancimino. E in cui architetti laureati sostengono che la monotonia del verde vada vivificata dagli edifici. Il paradiso della Conca d’oro diventa un inferno. Bestioni di cemento travolgono un paesaggio raccontato nei secoli con dispendio di aggettivi, un paesaggio, ha scritto Rosario Assunto, studioso di estetica, «del quale nessuno che lo abbia conosciuto può non sentirne il rimpianto, come di una luce che si sia spenta sul mondo».

La qualità della Conca d’oro sta nell’incrocio di produttività e di bellezza. Trecento generazioni di agricoltori, racconta Barbera, hanno adattato i frutteti a giardini, grandi frutteti e grandi giardini protetti da una barriera di montagne che preservano il clima e che inducono Fernand Braudel a usare l’aggettivo “paradisiaco”. Il paesaggio palermitano è un paesaggio culturale, un sistema equilibrato che modula le risorse disponibili dando alla natura una forma, una «porzione del mondo visibile incorniciata entro limiti che ben distinguono la pianura costiera, che sarà prevalentemente terra di frutteti, orti e giardini, dalle regioni collinari della Sicilia terre di pascoli e di cereali ». L’ulivo cresce in mezzo ai pascoli, la vite splende nei frutteti promiscui. Da terre straniere arrivano le palme nane, i datteri, i melograni e chi c’è già accoglie i nuovi venuti, realizzando una civitas fatta di alberi e piantagioni. La complessità dell’ordito assicura «stabilità contro le malattie e i disastri climatici, sicurezza ambientale ». I romani, poi i bizantini, quindi i musulmani e poi i normanni trovano un paesaggio che assimila diverse tradizioni e lo arricchiscono con innesti colturali. Il punto d’equilibrio cambia costantemente, gli aggiornamenti sono continui, ma chiunque innovi rispetta lo statuto dei luoghi. Anche quando alle coltivazioni si accompagnano le lavorazioni artigianali e industriali. La Conca d’oro, scrive Barbera, conferma un fondamentale “dogma ecologico e culturale”: solo il confronto fra diversi, uno scambio che avviene «attraverso margini permeabili e non barriere insormontabili (muri, fili spinati, recinti e respingimenti), genera nuova vita, saperi e paesaggi che rispondano ai bisogni, sempre in evoluzione, del mondo».

L’equilibrio della Conca d’oro attraversa i secoli. Sorgono le ville, che danno un’altra sistemazione al paesaggio, proponendo una specie di modulo urbanistico attraverso il quale anche la città sarebbe dovuta crescere. Arrivano gli agrumi, che segneranno una evoluzione produttiva, alimentando il mito di una terra dall’eterna primavera. In quest’armonia secolare, che non possiede nulla di immobile, anzi contiene le regole per rinnovarsi, regole che basta solo saper leggere, interpretare e applicare, irrompe la potenza distruttrice della rendita fondiaria, quella per cui un terreno agriinterna,

colo vale molto, ma molto di più vale un terreno edificabile. Palermo diventa esemplare nella letteratura sulla speculazione. L’amministrazione pubblica, la mafia, gli stessi proprietari di quei magnifici giardini consolidano alleanze. La città avanza senza trascinare alcuna qualità urbana e tutto distrugge.

Anche Barbera assiste – lo racconta nelle prime pagine – alla distruzione del giardino di famiglia,

a Resuttana. Il padre, un imprenditore di successo, non è costretto a vendere, ma si trova impigliato in un meccanismo affaristico i cui effetti per lui sarebbero stati poi scarsissimi. Un altro ricordo condisce la sua narrazione. I primi studi sui mandarini tardivi di Ciaculli, giovane ricercatore, li compie in una grande tenuta. Quella tenuta appartiene a un insospettabile Michele Greco, quello che le indagini e le condanne definiranno il “papa” della mafia. «Terribile criminale, autore di stragi efferate, amava il suo giardino di agrumi di un amore profondo».

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