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Eugenio Scalfari
Quel circo equestre chiamato centro
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Ancora sul "centro", ancora sulla questione Unipol, Da la Repubblica del 21 agosto 2005

LA DISCUSSIONE sul "centro" diventò uno dei temi favoriti del chiacchiericcio italico fin dal 2001, quando Berlusconi batté il centrosinistra guidato da Francesco Rutelli. Nel 2003, con le prime sonore sconfitte amministrative subite dalla Casa delle libertà la chiacchiera salottiera si trasformò in polemica politica. Ma dopo la schiacciante vittoria dell’Ulivo nelle regionali del 2004 il tema del centro e della sua possibile resurrezione ha ispirato la condotta di una parte non trascurabile della classe politica e di quella economica, ha suscitato l’attenzione quasi maniacale di alcuni giornali e di quasi tutti i dibattiti televisivi e ha ottenuto il convinto appoggio dell’Udc di Casini e Follini che ne ha fatto motivo di scontro all’interno del centrodestra. Scontro arrivato a un tale livello di intensità da compromettere l’esistenza stessa della coalizione.

Negli ultimi giorni l’intensità si è indebolita, come del resto è sempre avvenuto tra alleati litigiosi ma legati da convenienze elettorali imprescindibili. Ma sotto quella cenere il fuoco non è affatto spento e le sue propaggini lambiscono anche il sottobosco dell’Ulivo, materia infiammabile per eccellenza come ben sanno i piromani delle nostre estati.

Insomma la rinascita del centrismo tiene banco all’interno del gracile establishment italiano, suscita entusiasmi di vecchi arnesi e di giovani leve e contrapposti anatemi.

Vedere gli uni e gli altri all’opera può essere un test valido sulla vanità, l’ipocrisia e la pigrizia mentale che affliggono la nostra classe dirigente, compresa in essa gran parte dei "petits maîtres" che affollano le tribune giornalistiche e televisive producendo mirabili confusionismi lessicali, scambiando i moderati con i liberali, i liberali con i riformisti o, a scelta, con i conservatori, questi ultimi con i nazionalisti, giocando a palla con queste parole diventate intercambiabili e raccolte tutte nel taumaturgico contenitore del centrismo. Insomma, un chiassoso circo equestre di scadente qualità.

«A mio parere vanno tenuti distinti gli elettori di centro dai partiti di centro: i primi sono preziosi, i secondi dannosi. Gli elettori di centro sono preziosi perché meno ideologici e più orientati ai risultati di quanto non lo siano i loro concittadini di destra e di sinistra; hanno una mobilità di voto che vivacizza la competizione tra i due schieramenti e rafforza il controllo dell’opposizione sulla maggioranza. I partiti di centro invece sono dannosi perché quando assumono consistenza diventano inamovibili e depotenziano la competizione politica a sfavore del buongoverno».

Questa lucida diagnosi l’ha scritta venerdì scorso Franco Bruni sulla Stampa. Descrive perfettamente quanto è accaduto per quarant’anni con la Democrazia cristiana e con le sue alleanze a geometria variabile ma sempre attorcigliate attorno al centro. Naturalmente la Dc operò in un comodo stato di necessità determinato dalla guerra fredda e dalla indisponibilità democratica del Pci.

Oggi le condizioni sono molto diverse ma la tentazione di dar vita a partiti di centro permane. La tentazione si fa sentire con molta forza nell’Udc, in settori di Forza Italia, nell’Udeur di Mastella, nella Margherita di Rutelli. Ma si fa sentire soprattutto nella "business community".

Gli affari sono affari e viaggiano sulla lunghezza d’onda dell’etica degli affari: produrre ricchezza, trattenerne la parte maggiore per finanziare l’impresa e remunerare il capitale, pagare le imposte nella misura minima possibile, indurre lo Stato e la classe politica a impregnarsi della cultura imprenditoriale, la sola che possa promuovere lo sviluppo del paese e il benessere di tutti gli strati sociali.

Questa, grosso modo, è l’etica degli affari, anzi del capitalismo nelle sue forme migliori. Prevede regole e sanzioni per chi non le rispetta, purché appunto le regole riflettano la cultura dell’impresa. Naturalmente ci sono anche imprenditori che se ne infischiano delle eventuali regole e fanno di tutto per eluderle. Sono parecchi, ma per convenzione sono considerati "mele marce" che non dovrebbero inquinare le mele buone.

Quanto sia valido questo assioma in un paese dove il capo del governo e della maggioranza è una mela col verme in corpo, è un’anomalia che ha creato e continua a creare non pochi problemi.

Così stando le cose, risulta evidente che il luogo preferito dai capitalisti "buoni" (ma anche da quelli "cattivi") è il centro poiché dal centro ci si può più agevolmente muovere verso i due schieramenti maggiori «secondo i risultati», come ha scritto il professor Franco Bruni sopra citato. Ma il professor Bruni converrà che non tutti i ceti sociali ragionano sulla base della cultura d’impresa. Non esiste infatti soltanto quella in un paese maturo e complesso.

Esiste per esempio la cultura della solidarietà sociale, la cultura ecologica, la cultura dell’eguaglianza delle posizioni di partenza, la cultura della felicità. E non è affatto detto che i risultati in base ai quali queste varie culture giudicano le azioni di un governo siano gli stessi. Anzi non lo sono affatto.

Sicché può accadere (accade sempre più spesso) che mentre quei famosi risultati sono soddisfacenti per i moderati di centro dediti alla cultura d’impresa, siano invece considerati insufficienti o addirittura pessimi da chi è sensibile alla cultura ecologica o a quella solidaristica o all’occupazione eccetera eccetera. Come si forma in tali condizioni una maggioranza in grado di governare?

Tutto ciò per dire che in una società complessa non è solo il centro a decidere, ma una quantità di altri ceti, valori, risultati che vanno tenuti insieme da finalità e anche idealità che trovino tra di loro un comune denominatore. La democrazia è appunto questo e spetta alla politica, alla buona politica riuscire a tenere insieme queste diversità non con i teoremi delle scuole studiati a tavolino bensì con sentimenti, passioni, esperienza del vissuto e speranze per l’avvenire.

* * *

Credo che i centristi "full time" dell’Udc siano perfettamente consapevoli delle riflessioni fin qui svolte e credo lo siano anche i centristi di sinistra. Se perseverano nel loro programma di reviviscenza del centro le motivazioni sono dunque altre. Quali?

Per quanto riguarda Casini-Follini i motivi che li spingono mi sembrano abbastanza evidenti. Vedono una probabile sconfitta della Casa delle libertà. Temono (con ragione) di esser proprio loro il partito più a rischio di un esodo rilevante di elettori moderati in fuga verso l’opposta sponda e ancora di più verso l’astensione.

Il loro problema è dunque di trattenerli e anche di spostare voti all’interno del centrodestra, da Forza Italia e da An sulle liste dell’Udc. In altre parole lottano per la sopravvivenza: trattenere gli elettori in fuga, reclutarne altri dai partiti alleati. Per ottenere questi (legittimi) risultati debbono forzare al massimo il dissenso rispetto alla leadership berlusconiana senza però rompere un’alleanza che è la sola tavola di salvezza di cui al momento dispongono. Poi, ad elezioni avvenute e comunque vadano, tutto sarà diverso.

Per quanto riguarda i centristi della sinistra il problema è diverso: vogliono raggiungere i Ds in quantità di consensi. Per questo tengono alta la tensione con quel partito utilizzando anche l’argomento della questione morale sorta a proposito del "risiko" bancario.

Se l’obiettivo sarà raggiunto, saranno in grado di negoziare da posizioni di forza la composizione del governo e la sua politica valendosi anche della probabile disponibilità dell’Udc a convergere su temi specifici e importanti.

Se poi le elezioni si concludessero con un sostanziale pareggio, avrebbero buone carte per puntare su una "grossa coalizione" non impossibile dopo la liquidazione di Berlusconi. Si tratta di un progetto realizzabile? Diciamo che si tratta di un progetto non impossibile. Ma è chiaro che, per la governabilità del paese, quel progetto si accompagna ad un lungo periodo di tensioni non propriamente idonee a farci uscire da uno stallo politico ed economico che dura da troppo tempo.

La soluzione migliore, in tempi agitati come questi, sta invece in una vittoria netta di una delle due coalizioni e, all’interno di essa, nel rafforzamento altrettanto netto del partito che funge da pilastro centrale. Non sto dichiarando preferenze per questo o quello, ma semplicemente esponendo le condizioni logiche di efficienza auspicabili per far uscire l’Italia dalla palude nella quale si trova.

Post scriptum. Debbo una breve risposta alla lettera che lunedì scorso Piero Fassino ha inviato al nostro giornale a proposito del mio articolo dedicato al tema delle Opa bancarie e in particolare al suo atteggiamento nei confronti dell’Unipol e dell’iniziativa presa da quella società nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro.

Avevo posto al segretario dei Ds due specifiche domande: quale era stato il contenuto delle sue conversazioni telefoniche intercettate dalla Procura di Milano con Giovanni Consorte (Unipol); quale sarebbe stato il suo comportamento verso Consorte se l’ipotesi di una sua comune strategia con la Popolare Italiana (Fiorani) e gli speculatori Ricucci, Gnutti e compagni, fosse stata dimostrata. Ovviamente, nel porre tale domanda, avevo anche precisato che per quanto so di lui l’onestà di Fassino era comunque fuori discussione. I lettori ricorderanno forse le sue risposte che comunque riepilogo. Sul primo punto Fassino ha precisato di avere avuto con Consorte una sola telefonata nella quale si è informato sull’andamento dell’Opa. Ha anche detto di aver ricevuto telefonate dal presidente della Bnl, Abete, e da uno degli azionisti in contrasto con l’Unipol (Della Valle) che volevano anch’essi prospettargli le loro valutazioni.

Il segretario d’un partito importante può e anzi deve – dice Fassino – essere al corrente nelle grandi linee delle iniziative economiche che hanno un peso sull’economia del paese. Ha ancora precisato di non avere avuto alcun contatto né telefonico né d’altro tipo con il governatore della Banca d’Italia o con banchieri e operatori comunque interessati a queste vicende.

Sul secondo punto il segretario Ds ha ricordato i rapporti storici della sinistra con il movimento cooperativo aggiungendo di ritenere che il rafforzamento dell’Unipol nel rispetto delle regole vigenti sarebbe da lui considerato un fatto positivo. Ha tuttavia aggiunto che qualora un’unica strategia scalatoria fosse stata costruita da Consorte-Fiorani-Ricucci e compagni per opporsi con mezzi non leciti all’ingresso di banche europee in Italia e – peggio – per assaltare un importante giornale italiano, allora il suo atteggiamento verso Unipol non avrebbe potuto non tener conto di questi fatti.

Personalmente trovo del tutto soddisfacenti queste risposte mentre continuo a ritenere che i politici debbano astenersi da qualunque contatto con operatori durante una competizione in corso.

Reputo anche che l’insistenza sul tema Unipol da parte di altre voci interessate a impedire che quella società possa realizzare la sua iniziativa nel pieno rispetto delle regole sia pienamente legittima se adottata dalla parte in causa (Banca di Bilbao) e viceversa nasconda intenti di altro tipo se adottata da terzi in mancanza di fatti nuovi.

Unipol ha presentato da pochi giorni il suo prospetto alla Consob, alla Banca d’Italia, all’Isvap e all’Antitrust. Dalle analisi di queste quattro istituzioni conosceremo se l’operazione è validamente assistita da risorse e da motivazioni. Poi ogni osservatore potrà interloquire non più sul piano della questione morale ma su quello della valutazione economica.

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