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Michele Smargiassi
Quel bene perduto che corrode Milano
19 Maggio 2009
Articoli del 2009
Suburbio metropolitano contenitore di crisi sociale frantumata negli spazi delle villette. Recensione di romanzo-verità da La Repubblica 19 maggio 2009 (f.b.)

«Terra-cielo» nel gergo immobiliare significa villetta unifamiliare, ma è molto più di un sinonimo. È un desiderio di status, è la sintesi kantiana dell´individualismo proprietario: la solida casa attorno a me, il cielo stellato sopra di me. Lo spazio tra mansardina e tavernetta ha plasmato l´immaginario collettivo di una generazione, almeno in una certa fetta del nord peri-metropolitano, almeno in una certa fascia sociale, quella dei ceti affluenti, della classe media in ascesa. Ma in fondo al vialetto di palladiana, dietro il videocitofono, dove t´aspetteresti la serenità del consumismo realizzato, scopri le angosce insensate, il dolore vuoto.

I mali palesi delle periferie degradate sono ogni giorno sulle cronache. Il male oscuro dell´hinterland del benessere, serve l´occhio di un urbanista dell´interiorità per raccontarlo. Ce l´ha fatta Giorgio Falco, scrittore vigevanese quarantenne al suo secondo libro: L´ubicazione del bene (Einaudi, euro 16). Già il titolo, rubato al frasario catastale, è un piccolo capolavoro. Il bene è quello immobiliare ma anche quello morale, entrambi hanno un luogo raggiungibile, acquistabile, una superficie abitabile, tripliservizi, verandina, venti metriquadri di giardino, doppio box; il bene nella vita è dunque ubicato da qualche parte, basta un rogito e la felicità sarà raggiunta, i figli cresceranno «in un contesto migliore», in un «centro abitato a misura d´uomo» a «soli quindici minuti dal centro».

Ma a Cortesforza, paradiso di villette dove s´intrecciano le disperate storie che racconta Falco, il «bene» non c´è. Non c´è neanche il suo contrario, se immaginiamo il male solo come ferocia, dramma, cattiveria. Ci sono invece la dissoluzione lenta e inspiegabile dei legami familiari, lo svanimento degli affetti, la frana senza spiegazione delle speranze, l´insoddisfazione a bassa intensità, l´«infelicità senza desideri» che evocò Peter Handke. Coppie che non hanno il coraggio di lasciarsi, azzardi imprenditoriali finiti male, lampi di follia, weekend annoiati, cinismo quotidiano. Giovanna, borderline, metterà il cane nel forno, Graziella fa cremare il suo, «lui» e «lei» senza nome litigano sulle pulci del loro. Il signor Moriero da 46 anni prende a pugni in testa la moglie. Perché? Non c´è un perché.

Non c´è neanche Cortesforza, ovviamente, è un paese letterario, però è «ubicato» sulla statale 494 tra Abbiategrasso e Vermezzo, e non poteva essere molto lontano da lì. La suburbitudine diagnosticata con fredda pietà da Falco non poteva manifestarsi a Centocelle, a Secondigliano o allo Zen, dove i mali hanno un nome e in fondo anche uno scopo ben concreto. È invece una malattia del nord, è la sua depressione clinica, è la fase terminale di una storia che aveva nomi entusiasti quando esplose (yuppismo, "Milano da bere") e che ora che è nei guai chiamiamo "questione settentrionale". Ma qui la recessione mondiale c´entra poco, la crisi di Malpensa e i pasticci dell´Expo sono solo la schiuma. È sotto, molto sotto la tavernetta, che i pilastri di cemento della società nordista sembrano corrosi da una ruggine morale di svogliatezza e perdita di senso.

Non è storia inedita. Dell´emarginazione benestante s´erano già accorti scrittori come Carver, registi come Altman, fotografi come Owens. Negli Usa la civiltà della villetta conta un secolo di vita, è tutt´uno con l´american way, con la cultura dell´automobile, col mito ultrafamilista della middle-class; affonda le sue radici nel profondo e paradossale anti-urbanesimo di quel paese, e conosce solo due alternative, entrambe radicali: i loft dei ricchissimi, gli slum dei poverissimi. In Italia, paese di civiltà urbana secolare, la scelta periurbana è recente, timida, stimolata dalla speculazione edilizia. L´auto-deportazione dei ceti emergenti negli anni Ottanta è stata un fenomeno indotto, largamente artificiale, avviato prima che una cultura della socialità da hinterland si potesse consolidare. Al suo posto, la precaria compensazione degli oggetti: le auto monovolume e station wagon, la finta rusticità degli arredi da giardino e dei prati in rotolo, la superficiale confidenza da cancello scolastico tra le mamme, gli animali da compagnia (quanti animali, vittime o crudele specchio dei loro padroni, negli interstizi delle storie di questo libro).

Ma più che darci una versione all´italiana delle atmosfere americane, Falco, forse inconsapevolmente, ha aggiornato una letteratura a volte dimenticata e tutta nostra. Quella che un secolo fa, per la penna di autori maggiori e minori, da Tozzi a Svevo, raccontò la nascita e la precoce crisi morale di un altro ceto medio: i travet, le mezzemaniche, gli impiegati. Anche il loro «bene» era «ubicato» sulla mappa della città: nei quartieri di mezzo, nelle palazzine che si sforzavano disperatamente di distinguersi con qualche "dignitoso" orpello di stucco dai casermoni di ringhiera del proletariato industriale. Anche a loro mancò un piano regolatore dell´anima.

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