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Marco Ponti
Quei “poteri forti” nei trasporti: le ferrovie come le autostrade
17 Ottobre 2014
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«Ferrovie e autostrade sono monopoli naturali regolati. Con molte similitudini. A partire dal fatto che manca la volontà di intaccarne il potere. Permettendo così a Fsi di bloccare qualsiasi apertura alla concorrenza o riduzione dei sussidi pubblici».

«Ferrovie e autostrade sono monopoli naturali regolati. Con molte similitudini. A partire dal fatto che manca la volontà di intaccarne il potere. Permettendo così a Fsi di bloccare qualsiasi apertura alla concorrenza o riduzione dei sussidi pubblici». Lavoce.info, 17 ottobre 2014

Le vite parallele di ferrovie e autostrade


Appare evidente che i concessionari autostradali costituiscano “poteri forti”, soprattutto dopo il decreto “sblocca Italia”, che di fatto elimina ogni possibilità di avere competizione in un settore che ha già visto vistosi fenomeni di rendita nel passato (vedi gli interventi su lavoce.info di Giorgio Ragazzi e di Tito Boeri su La Repubblica). Ma qui cercheremo di dimostrare che le Ferrovie dello Stato (Fsi) non sono da meno. Entrambi i gruppi sono monopoli naturali regolati (solo l’infrastruttura, nel caso ferroviario), di grandi dimensioni, con fatturati rilevantissimi, dell’ordine dei 5 miliardi annui per le autostrade e di 8 per Fsi. Generano forti interessi esterni tramite forniture e appalti, anch’essi miliardari, interessi che ovviamente contribuiscono a generare una straordinaria capacità di pressione politico-economica (“clout”, in termini regolatori).
Fin qui le similitudini. Le differenze forse sono a favore di Fsi. Infatti, mentre l’occupazione diretta nel settore autostradale è limitata a poche migliaia di unità, e frazionata tra i diversi concessionari, per Fsi si tratta di 80mila lavoratori di una stessa azienda, per di più interamente pubblica, quindi con straordinarie capacità di influire sul consenso elettorale. E qui il fatto che Fsi costi alla Stato 8 miliardi annui in media (12 miliardi calcolando anche il fondo pensioni straordinario di cui gode l’azienda), paradossalmente ne aumenta il “clout”: mentre la redditività delle autostrade garantisce sia l’occupazione che i livelli retributivi, per Fsi questi dipendono strettamente dalla sfera politica.
La durata delle concessioni vede in vantaggio Fsi: 60 anni per l’infrastruttura, una durata di fatto eterna, mentre le concessioni autostradali hanno scadenze lunghe, ma finite. Inoltre, Fsi è anche monopolista nei servizi passeggeri che eroga (si tratta di monopoli legali) sulle linee non di alta velocità. E lo è di fatto nei servizi regionali, avendo sempre vinto le poche gare bandite per l’affidamento, gare il cui bando non era certo favorevole a “new entrants”, a volte per esplicita scelta politica.

Un'impresa troppo grande

Vediamo ora alcune caratteristiche tecniche che per entrambe le realtà rafforzano il ruolo tutto politico della loro natura di “grandi monopolisti” (per il settore autostradale ci si riferisce all’impresa di gran lunga dominante, Autostrade per l’Italia, che detiene circa il 60 per cento della rete a pedaggio, ma percentuali ancora maggiori in termini di traffico). La teoria regolatoria, ma anche il buon senso, insegna che occorrerebbe, per le imprese regolate, che il regolatore determini “dimensioni minime efficienti”. Cosa significa? Che il regolatore deve soppesare le economie di scala possibili (l’efficienza produttiva delle imprese) con dimensioni tali da non rendere eccessivo il peso politico-economico dei soggetti regolati, che vanificherebbe nei fatti il suo stesso reale potere regolatorio (accanto al già citato termine “clout” si potrebbe introdurre quello del “too big to fail”).

Per Fsi, la separazione verticale tra rete e servizi già sarebbe una azione che ne diminuirebbe sensibilmente il “clout”, e l’ipotesi è allo studio da parte della neo-costituita Autorità di regolazione dei trasporti (Art), ma solo a fini conoscitivi. Per le reti infrastrutturali di entrambi i regolati, l’esistenza di economie di scala è quantomeno dubbia, e comunque mai misurata. Per la ferrovia, un tentativo fu fatto anni fa da Gian Carlo Loraschi, che lo portò a ipotizzare in termini intuitivi la suddivisione della rete in quattro imprese (Nord, Centro, Sud e Isole, sul modello giapponese), da sottoporre a una qualche forma di “yardstick competition” (competizione per confronto).
Si ricorda solo l’ira delle ferrovie per tale ipotesi e la fine improvvisa della collaborazione con quello studioso. E in effetti qualche economia di scala si potrebbe verificare per la rete solo negli acquisti di materiali di manutenzione, comunque già oggi frazionati dalla dimensione nazionale della rete stessa perché l’obsolescenza non è certo simultanea nel tempo, per tali materiali. Un’altra componente che potrebbe scoraggiare il frazionamento delle rete è il livello di progresso tecnico del settore (è stata questa una delle basi della difesa di Microsoft contro ipotesi regolatorie di frazionamento dell’impresa, allora dominante, anche in termini di contendibilità). Ma la natura di monopolio naturale della rete ferroviaria, al contrario del caso Microsoft, esclude ogni possibilità di apertura della concorrenza per questa via.

Il sostegno politico

Da ultimo, va considerata la solida capacità di entrambi i monopolisti di avere supporti politici, sia a livello parlamentare che a livello locale. Per il livello locale, la cosa è ovvia: entrambi i settori non pesano sulle risorse locali, ma costruendo infrastrutture e, per Rfi, gestendo anche servizi finanziati dallo Stato, costituiscono importanti fattori di consenso locale “senza costi politici”. Il tentativo di modificare l’incentivo perverso implicito nei finanziamenti statali “earmarked” per i sussidi ai servizi ferroviari locali, trasferendo le risorse corrispondenti direttamente alle Regioni, è paradossalmente fallito a causa delle Regioni stesse, che hanno “restituito” allo Stato la discrezionalità di tale finanziamento. E ciò al fine di evitare conflitti locali nell’allocazione delle risorse, soffocando così anche il contenuto democratico di un dibattito esplicito sulle priorità sociali della spesa.

A livello centrale, il “clout” di Rfi è costituito verosimilmente anche dalla pressione delle lobby dei costruttori, data l’enorme quantità di risorse pubbliche destinate alle infrastrutture ferroviarie, finanziate integralmente a fondo perduto (si stimano 40 miliardi , in moneta attuale, solo per l’alta velocità). Su tutto, regna l’asimmetria informativa: Fsi continua (giustamente, dal suo punto di vista) a dichiarare utili di esercizio, ma nessuno sembra ricordare che tali utili avvengono a valle di trasferimenti pubblici (che, secondo Ugo Arrigo, hanno contribuito per non meno di 300 miliardi di euro al debito pubblico nazionale. Quei conti possono essere discussi, ma l’ordine di grandezza è indubbio). A fronte di tali trasferimenti, non è mai stata tentata una verifica di risultati (per esempio, rapporto costi/benefici per gli investimenti, riduzione delle emissioni, effetti distributivi, eccetera).
Per concludere: come per le autostrade nessuna azione politica sembra intenzionata a intaccarne il potere monopolistico, così Fsi sembra godere di un simmetrico e forse ancor maggiore potere, in grado di sventare qualsiasi disegno sia di reale apertura alla concorrenza, almeno tale da metterne a rischio la posizione dominante, sia di riduzione dei sussidi pubblici (chiamati pudicamente “corrispettivi”). Si può stimare infatti che Fsi detenga circa il 90 per cento del fatturato del settore ferroviario italiano, tra ricavi e trasferimenti pubblici. E il problema è notoriamente presente anche a livello europeo, come è emerso nel convegno sulle ferrovie promosso recentemente a Torino proprio dalla Autorità di regolazione: il Parlamento europeo poche settimane fa ha sostanzialmente bocciato il “quarto pacchetto” della Commissione (organo tecnico del Parlamento), che proponeva timide accelerazioni del processo di liberalizzazione del settore ferroviario, pacchetto giudicato eccessivamente pro concorrenziale. Se Sparta piange, Tebe non ride: la lobby ferroviaria appare fortissima anche a livello europeo.

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