Assieme ai reperti antichi, tre opere stanno a testimoniare la persistenza delle figure mitologiche nella cultura moderna e contemporanea, una tempera di Alberto Savinio (Creta), un dipinto del Cavalier d'Arpino (Perseo libera Andromeda) e una Medusa di pittore fiammingo anonimo della prima metà del XVII secolo. Quest'ultimo dipinto, la testa mozzata della gorgone che giace a terra in un ultimo spasmo di orrore, a lungo ritenuta, sulla scorta di Vasari, opera leonardesca, costituì l'oggetto di un famoso poema di Percy Bysshe Shelley, On the Medusa of Leonardo da Vinci in the Florentine Gallery. È il 1819 e siamo alla radice del romanticismo nero, quella corrente culturale che dalla fine del XVIII secolo si concentrò sulla zona d'ombra, di eccesso e d'irrazionale che si celava dietro l'apparente trionfo delle luci della Ragione.
Così, in piena epoca moderna, i mostri antichi riappaiono a rappresentare quella categoria del "dionisiaco" che Friedrich Nietzsche si incaricherà di elaborare sul volgere del secolo.
La Nachleben degli antichi mostri è indagata in un altro saggio del catalogo (Verde) a partire dalla Rivoluzione francese fino al contemporaneo. È un percorso che illumina esemplarmente i meccanismi attraverso i quali questo ventre ancestrale che affiora nelle raffigurazioni dei mostri costituisca un sottofondo ineliminabile della nostra fragile civiltà.
Senza scomparire mai, anche nei periodi "apollinei", come ad esempio, per tornare nell'antichità, il periodo augusteo, quando, quasi scomparsi nei monumenti ufficiali, Gorgoni, Pegasi, Sfingi ricompaiono nelle abitazioni private, numerosissimi, anche in quelle riconducibili alla più stretta cerchia familiare di Augusto, dalla casa della Farnesina a quella di Livia sul Palatino, apparentemente ridotti a puro elemento decorativo.
Apparentemente. Perché fra le tante occasioni perdute della mostra Augusto, ora alle Scuderie del Quirinale, vi è la troppo frettolosa liquidazione dell'intuizione di Ranuccio Bianchi Bandinelli sul carattere dell'arte augustea come tentativo di congelare attraverso un nuovo classicismo (Apollo è il dio di Augusto, non per caso) altre originali forme artistiche di origine ellenistica ed italica.
In questo senso, la mostra e le collezioni di Palazzo Massimo (dove si possono ammirare i meravigliosi affreschi e stucchi della Farnesina) rappresentano, in un certo senso, il necessario "rovescio della medaglia", aprendo un'indispensabile finestra su di un repertorio che i momenti di trionfante classicismo - in ogni epoca della storia - non riusciranno mai ad estirpare.
Creature che rappresentano il disordine, il caos primordiale destinato ad essere abolito dall'ordine ristabilito dagli dei olimpici: rassicurante esito di tanti miti che li vedono sconfitti, i mostri. Eppure, la loro tenace sopravvivenza ci racconta di come gli uomini di ogni epoca, abbiano sempre saputo, in fondo, che loro, e non gli dei perfetti e distanti, erano più vicini ad una realtà umana in cui paura e orrore erano (e sono) elementi ineliminabili.
A noi vicini, quindi, allora come ora, in tutte le loro valenze: come strumenti scaramantici e quindi utili per sconfiggere la paura evocandola (gorgoni) o come simboli di forze ignote che però ci attraggono (le sirene, le sfingi) o anche come rappresentazione della diversità, di un'alterità che non inevitabilmente è ostile e quindi da respingere. Ce lo ricorda, con immediatezza struggente, il meraviglioso bronzetto dell'VIII secolo a.c. prestato dal Metropolitan Museum di New York.
È la raffigurazione di un uomo e di un centauro: le due figure sono poste l'una di fronte all'altra e paiono sostenersi appoggiandosi con le braccia l'una sull'altra, in un gesto di vicinanza che ci rimanda ad una lontana, lontanissima età dell'oro, tale anche perchè due esseri così diversi potevano convivere senza scontrarsi.
Il testo rappresenta una versione ampliata della recensione pubblicata su L'Unità, 7 gennaio 2014