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Nicola Zanardi
Quali lavori per il futuro?
1 Luglio 2013
Milano
Le trasformazioni urbanistiche della città, va da sé, dovrebbero anche nei casi più perversi essere determinate dall'evoluzione economica e sociale, ma la cosa ahimè non dipende per nulla da variabili che la città è in grado di gestire da sola.

Le trasformazioni urbanistiche della città, va da sé, dovrebbero anche nei casi più perversi essere determinate dall'evoluzione economica e sociale, ma la cosa ahimè non dipende per nulla da variabili che la città è in grado di gestire da sola. Corriere della Sera Milano, 1 luglio 2013 (f.b.)

Dal dopoguerra a oggi il dibattito accademico (e poi mediatico) sull'urbanistica e, in generale, sulla forma della città ha occupato prima gli addetti ai lavori, quindi l'economia, la finanza e i grandi eventi, fino a esaurirsi in una serie di auspici che, in qualche maniera e con non tanta chiarezza, si collegano oggi a Expo. La verità è che, nel frattempo, Milano ha cambiato pelle tante volte, perdendo la sua vocazione industriale e sostituendola con i servizi fino alla finanza, che ha continuato a sostenere l'edilizia finché ci è riuscita. E mentre Milano cambiava pelle, cambiava anche il suo paesaggio: capannoni abbandonati o spesso lasciati a metà, depositi vuoti, centinaia di fabbriche chiuse.

Il paradosso è che nei decenni si sono accumulate generazioni e generazioni di manufatti e di capannoni, con una logica «consumistica», da mass market; quasi un «usa e getta permanente» che ha occupato una buona parte del territorio, con effetti paesaggistici devastanti e un'ininterrotta filiera che accompagna le nostre periferie, seguendo le direttrici e le autostrade che portano fuori dalla città.

Ora, la vera domanda che si pone è collegata al problema reale del Millennio: il lavoro. O meglio la sua mancanza. Che fare quindi di questi manufatti? La verità è che tutto questo sistema è stato in piedi fino a che il lavoro è stato il collante fra compratori e acquirenti, fra produttori e consumatori. Nel momento in cui decresce la popolazione attiva (e diminuiscono anche le sue garanzie) e quella non attiva vive molto più a lungo (mentre la città implode) la vera domanda viene ancora una volta elusa. Quali lavori serviranno ancora, che tipo di economia si potrà immaginare? Si continuerà a usare crisi e crescita come sinonimi di tempo brutto e tempo bello. Il premier inglese Cameron ha fatto fare un'indagine su quali potrebbero essere i lavori del 2030 (praticamente dopodomani).

Vengono fuori lo smaltitore (non l'analista) di dati, lo specialista di contenuti verticali, figure senza tempo come gli insegnanti associati a figure virtuali come gli avatar e tanti altri profili e scenari che andranno comunque verificati. Se esisterà energia, nel senso più ampio del termine, sarà data dalla conoscenza, dalla capacità di metabolizzare la qualità e la quantità dei saperi, per applicarne poi i risultati. Potrebbe anche accadere che i paradigmi vengano rovesciati, per cui si studierà sempre e si lavorerà solo part time. Pasolini, già 40 anni fa, parlava di liberazione dal lavoro grazie alla tecnologia, intuendo che l'industrializzazione italiana sarebbe passata attraverso l'incremento dei beni privati e non delle infrastrutture pubbliche (scuole, ospedali, ferrovie) e che questo non avrebbe portato un vero benessere.

Il traguardo del lavoro si preannuncia difficile, alla fine di un percorso che prevede formazione, mediazione, prevenzione e informazione a ciclo continuo. E dei nostri capannoni, che occupano città e territori limitrofi senza soluzione di continuità, che ne faremo, in uno scenario siffatto? Li raderemo al suolo, intitolando a Pier Paolo Pasolini i parchi che sorgeranno dalle loro ceneri? O continueremo a parlare di crisi e di crescita, a fasi alterne?

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