Piccola storia della decadenza culturale di una parte del vecchio Partito comunista italiano. Cui molto ci sarebbe da aggiungere, a partire dalla sconfitta di Enrico Berlinguer (e dall'assassinio di Aldo Moro).
Il manifesto, 3 dicembre 2016Perché gran parte del ceto politico e intellettuale di provenienza comunista è schierata con il Sì? Cedimenti, calcoli, opportunismi ci sono anche stavolta. Ma, a riverire il capo di turno con giravolte sensazionali, spingono anche ragioni di cultura politica. A franare, in appoggio alla manipolazione governativa della costituzione, è soprattutto quello che, con un qualche schematismo, si può definire il centro destra del vecchio Pci. La componente di centro sinistra, ad esclusione di Bassolino e Turco, è invece mobilitata attivamente per il no: da D’Alema a Bersani e Folena, da Tortorella a Reichlin e Salvi.
Che proprio dalle propaggini di un partito che aveva fatto del vincolo costituzionale un tratto di identità provenga oggi un pericoloso tentativo di destabilizzazione dell’ordinamento repubblicano è certo sorprendente. E però una caduta della normatività della costituzione, come bene comune, si ebbe già con la segreteria di Veltroni. Nel 2001 si consumò il primo grave strappo alla regola per cui le riforme costituzionali trascendono la volontà del solo governo del momento.
A questo tabù, che postulava l’impossibilità di mettere mano alla Carta senza un largo consenso, si attenne lo stesso D’Alema. Quando il patto della bicamerale saltò, egli si guardò dal proseguire a colpi di maggioranza. Minando le necessarie consuetudini dialogiche, per introdurre il nuovo titolo quinto della costituzione con una manciata di voti, i Ds hanno introdotto un precedente scivoloso.
Con la sua venerazione dei falsi miti della democrazia immediata, con l’ubriacatura per il fragile miraggio del sindaco d’Italia, Veltroni ha proseguito il lavoro di destrutturazione della cultura istituzionale avviato da un Occhetto nuovista e invaghito delle leggende maggioritarie di Segni.
Accantonati gli schemi tradizionali di stampo parlamentare, i Ds hanno attinto dalle elaborazioni dell’area giuridico-politologica della Fuci (da Barbera e dagli ideologi del bipolarismo immaginario, suoi seguaci). La resistenza di rigorosi giuristi del mondo cattolico, come Elia e Onida, ha per un certo tempo ostacolato la penetrazione nell’Ulivo delle suggestioni per il premierato assoluto.
Per aggirare lo scoglio, Veltroni ha però disegnato lo statuto del Pd sul modello dell’investitura di un capo che opera nel vuoto di canali di mediazione, destinati a spegnersi dopo la chiusura dei gazebo che hanno riconosciuto il volto del leader. La coincidenza delle cariche di segretario e premier ha demolito l’impianto della democrazia parlamentare con irrazionalità, forzature, fughe.
La riforma di Renzi è per questo il compimento di una devastante cultura istituzionale maturata nell’ambiente della Fuci e recuperata come ideologia del Pd. Due sono gli assiomi. Il primo è una caricaturale nozione di bipolarismo come miracolo politico (elezione diretta del governo al calar della sera). Il secondo rinvia a una donchisciottesca lotta al consociativismo (rifiuto di ogni ruolo dell’aula dopo lo scrutinio) come male assoluto. Le ambigue categorie istituzionali della Fuci (Ceccanti, Vassallo, Guzzetta) hanno trovato sbocco nel combinato disposto tra Italicum e riforme del bicameralismo.
Il presidente Napolitano, diversamente dall’amletico Macaluso di oggi e dal resto della sua area molto vicina alle posizioni di Barbera, non ha condiviso questo impianto culturale. Il sostegno a Renzi nasce non già dalle sirene del direttismo ma dalla preoccupazione di proteggere la sua interpretazione creativa del ruolo presidenziale nel periodo cruciale che va dalla caduta di Berlusconi (regia della soluzione tecnica) alla sterilizzazione (con un incarico fantasma) della velleità di Bersani di procedere verso un governo di svolta.
Quello che accomuna le tante personalità delle aree di centro-destra del vecchio Pci è una perdita secca di cultura della costituzione. L’avallo miope a una riforma decisa da una minoranza del 25 per cento, che tramuta un parlamento a debole legittimazione in assemblea costituente che ritocca 47 articoli, segna infatti la sostanziale de-costituzionalizzazione della repubblica.
La rinuncia a fare della Carta un bene condiviso, legittima qualsiasi forzatura decisa da chi sta al potere. C’è da sperare che l’elettorato di sinistra, con il No alla follia di un dispotismo di minoranza in tempi di crisi della democrazia, continui a scaldare la connessione sentimentale con la Carta siglata da Terracini.