. Il manifesto, 29 maggio 2016 (c.m.c.)
Nonostante siano passati quasi vent’anni dalla prima pubblicazione di Estetica razionale, il libro in cui Maurizio Ferraris fece confluire quello che era stato il suo maggior sforzo teorico, il nucleo filosofico allora esplorato fa emergere nuovi aspetti ancora sommersi in quelle magmatiche condizioni iniziali: non a caso si intitola (Einaudi, pp. 127, euro 12,00) il suo ultimo libro, da intendersi non tanto nel senso di «pericolo» o «eccezione», ma anzitutto come quel che emerge dalla realtà al di fuori del nostro controllo intenzionale e consapevole.
Tra le due accezioni di «emergenza», però – nota Ferraris – «c’è una continuità di fondo: che cos’è un’emergenza se non un evento che accade rivelando la possibilità dell’impossibile? E che cosa è più emergente del reale, che rompe i giochi del possibile e si presenta con una nettezza imprevista, con minacce o con risorse immaginarie?». Solitamente, le proprietà emergenti vengono intese, grosso modo, come proprietà di certi sistemi (naturali o sociali) che emergono dall’interazione complessa di un numero enorme di elementi di base, ma che non sono riconducibili al loro comportamento.
Se è così, un cambiamento negli elementi di base sarà correlato a un cambiamento nella proprietà emergente considerata (se altero significativamente i neuroni del cervello di una persona, ne altero verosimilmente anche la coscienza o la mente), senza che però si riesca a fornire una vera e propria spiegazione, secondo leggi note, di questa correlazione.
Ferraris ne è ben consapevole, e dichiara dunque fin da subito che questo libro è «speculativo», procede per barlumi, e se avessimo una mente infinitamente superiore a quella umana, allora succederebbe che, come nella poesia di Raboni, «Lentamente come/risucchiati all’indietro da un’immensa/moviola ogni cosa riavrà il suo nome,/ogni cibo apparirà sulla mensa».
Ferraris professa uno stretto nominalismo (gli universali – i concetti, i generi in cui raggruppiamo le cose – non hanno una loro realtà, sono semplici nomi: reali sono solo gli individui), e considera tutto il mondo (la totalità degli individui) come «il risultato di un’emergenza che non dipende dal pensiero né dagli schemi concettuali, sebbene questi possano ovviamente conoscerlo». È come se la teoria dell’evoluzione fosse estendibile a ogni produzione: dati un numero immenso di individui, certe forze, e un tempo sconfinato a disposizione, non c’è bisogno di postulare piani, disegni, intenzioni, decisioni perché l’iterazione di certe interazioni tra individui può far emergere di tutto.
Il libro è diviso in tre parti, secondo tre regioni di emergenza fondamentali, in cui la dimensione subordinata è condizione di possibilità di quella successiva: 1. l’ontologia (quello che c’è, e che è costituito dall’interazione degli individui); 2. l’epistemologia (quello che sappiamo, e che emerge, se emerge, dall’ontologia); 3. La politica (quello che facciamo «come agenti liberi o presunti tali»). Forse le novità più rilevanti, rispetto agli altri libri di Ferraris, si evidenziano nel terzo campo di emergenza, la politica. Sulle prime due, molte sarebbero le cose da discutere proficuamente. Faccio un solo esempio, riguardo all’ontologia: Ferraris ha sempre insistito sulla «inemendabilità del reale»: «il fatto che (…) il pensiero non sia in grado di emendare le illusioni percettive significa che il sapere non riesce a intervenire sul piano dell’essere, e che dunque quest’ultimo è indipendente dal primo».
Mentre condivido l’idea che si possa parlare legittimamente di contenuti percettivi non concettuali e che ci siano molti sensi in cui l’essere non dipende dal pensiero, confesso che non ho mai capito bene la forza di questa argomentazione in favore della inemendabilità del reale. Prendiamo l’illusione della cascata: sappiamo che se guardiamo a lungo una cascata e poi spostiamo lo sguardo sulle pareti di roccia tra cui l’acqua precipita, queste pareti sembrano salire verso l’alto.
A me sembra che ciò dimostri certamente «l’inemendabilità» di certi nostri meccanismi neuronali, ma non quella della realtà: semmai, per essere colta come tale (una roccia reale, su questa terra, non ascende autonomamente al cielo), ha bisogno di una «correzione» concettuale. Continuerò a vederla salire, ma riconoscendola come roccia non la userò come un ascensore. In questo caso, non è forse necessario l’intervento di un concetto («l’epistemologia») per dirmi che sono davanti a una roccia e non a un ascensore naturale?
Veniamo alla politica, intesa comunemente come l’arena delle intenzioni comuni o conflittuali, dei piani e delle decisioni, del tentativo di controllare e dirigere la nostra convivenza. È vero che oggi ne vediamo tutta la debolezza, e sono sempre più convinto che il controllo e l’autocontrollo ossessivi (sorveglianze, tracciabilità, automonitoraggi) siano solo l’altra faccia di una perdita di controllo percepito come irrimediabile (automatismi, dipendenze, attacchi di panico): in mezzo, niente, o quasi.
Se ciò è vero, forse la proposta teorica di Ferraris può essere letta come un tentativo di incunearsi tra quei due estremi: se i concetti e le norme sembrano emergere da una «dialettica dell’esempio» (una parte molto interessante dell’epistemologia, che andrebbe discussa a lungo, secondo cui esiste una tensione e una circolazione che lega l’esempio come caso ordinario a quel che è esemplare in quanto straordinario), anche dal punto di vista politico «l’esempio viene prima della norma e la costituisce».
Se vogliamo emanciparci – innanzitutto dalla nostra «servitù volontaria» – non servono rivoluzioni o critiche dell’ideologia, sostiene Ferraris, ma azioni esemplari, come quella del politico bulgaro Pesev, che, nel 1943, con una semplice lettera evitò la deportazione di decine di migliaia di ebrei. La conclusione che Ferraris trae da questo e altri esempi è che «le reazioni esemplari sono reazioni, non potrebbero esercitarsi se non di fronte a una certa resistenza», sono «generalmente agite prima che capite, e il loro significato si presenta post factum».
Credo che qui Ferraris tocchi un punto nevralgico dell’azione eti
ca e politica, che riguarda il meccanismo in cui si produce qualcosa che avrà, a lungo termine, conseguenze che non possono derivare dalle intenzioni dell’agente, e che tuttavia potrebbero essere altamente desiderabili. Come se si trattasse, paradossalmente, di voler produrre intenzionalmente una «eterogenesi dei fini», vale a dire ciò che sfugge per definizione a ogni intenzione, senza chiamare in cause «mani invisibili» o «provvidenze» di qualche genere.
Resta il dubbio che la facoltà di giudicare, di riflettere, giochi una sua parte essenziale nel momento della decisione – e proprio l’esempio di Pesev sembra richiederla – pur nell’incertezza delle conseguenze.
Una «dialettica dell’esempio» sembra richiedere allora di essere inserita in una «dialettica del controllo»: tra i due estremi complementari degli automatismi ciechi e incontrollati, e l’illusione di pianificare e padroneggiare autonomamente ogni azione, le «emergenze» esemplari occuperebbero così un posto imprescindibile, ma non esclusivo.