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Maurizio Giuffrè
Progetti indiani a bassa quota
23 Maggio 2006
Articoli del 2005
Intervista all'architetto indiano Raj Rewal, da il manifesto del 20 settembre 2005

Ha ragione il critico William J.R. Curtis a dire che quando sarà scritta la «verità storica» sullo sviluppo dell'architettura della fine del ventesimo secolo, Raj Rewal prenderà il posto che si merita. L'architettura moderna, infatti, ha «radici indiane» e Raj Rewal è di sicuro tra i suoi massimi e originali interpreti. Ne è una dimostrazione la mostra dei suoi progetti in corso a Parma fino al 25 settembre, allestita nei meravigliosi spazi del Teatro Farnese in occasione del Festival dell'Architettura, e curata con passione da Claudio Pavesi. Nato in Punjab nel 1934, Rewal ha studiato a Delhi e a Londra, e ha poi trascorso qualche anno a Parigi nello studio di Michel Ecochard. Di ritorno in India nel 1963, oltre a partecipare e a vincere numerosi concorsi di architettura per edifici pubblici e privati, ha insegnato fino al 1972 Teoria del progetto e Storia dell'architettura indiana a Delhi, presso la locale Scuola di urbanistica e architettura. La sua opera architettonica si concentra per lo più a Nuova Dehli e i suoi esordi rientrano nell'ambito dell'edilizia residenziale: nel corso degli anni firma fra l'altro gli alloggi per il personale di servizio dell'Ambasciata di Francia (1967-69), il complesso di alloggi Sheikh Sarai (1970-82), il complesso di alloggi Zakir Hussain (1979-84).

Raj Rewal sperimenta e realizza una edilizia compatta, ad alta densità, dai forti connotati morfologici, memore delle problematiche del Team Ten e dei «reticoli urbani» di Candilis, Josic e Woods per Tolosa e Berlino. La «trasparenza labirintica» di quei modelli urbani, l'architetto indiano l'ha conosciuta durante il suo soggiorno in occidente, ma è la stessa che egli ritrova in India nelle città di Jaisalmer e Fatehpur Sikri caratterizzate da un ordito orizzontale che - come ha scritto Daniel Treiber - sembra echeggiare i modelli insediativi di Van Eyck e di Hertzberger. Per Rewal è semplice comprendere le profonde ragioni che accomunano le antiche testimonianze indiane e i progetti urbani del Team Ten: entrambi ricercano uno spazio collettivo vivibile, attento alle relazioni tra i residenti, con una identità estetica e funzionale che siano espressione di valori sociali condivisi.

A Nuova Delhi, sia nel villaggio olimpico per i Giochi Asiatici (1980-82) sia negli alloggi per l'Istituto nazionale d'immunologia (1983-85), Rewal chiarisce con precisione la sua idea di architettura fondata sul rispetto della tradizione e dell'ambiente. La sua «architettura climatica», con poche eccezioni, non è mai un oggetto isolato e autoreferente, ma un organismo complesso regolato da una maglia strutturale all'interno della quale si articolano le unità abitative e gli spazi all'aperto: una architettura che si ammira per le sue qualità morfologiche e il suo carattere polifunzionale e per il modo in cui si integra al paesaggio, autentico «guscio-contenitore di umanità».

Nella Biblioteca del Parlamento (1993-2000) Rewal si è confrontato con maggiore decisione con l'architettura coloniale, ma anche in questo caso ha preferito compiere un gesto antidogmatico, al tempo stesso simbolico e del tutto originale. Lo sconosciuto architetto di Fatehpur Sikri gli ha insegnato che per raggiungere Dio ci sono molti modi, e che di conseguenza non bisogna mai restare bloccati a ripetere sempre la stessa soluzione ma ricercarne sempre di diverse.

Abbiamo incontrato Rewal durante il suo breve soggiorno a Parma e con lui abbiamo cercato di comprendere meglio la sua architettura in relazione con quella indiana, tradizionale e contemporanea.

Lei appartiene alla terza generazione degli architetti modernisti indiani. Giovanissimo, ha conosciuto l'eclisse dell'impero coloniale britannico e ha partecipato alle recenti evoluzioni della storia dell'architettura occidentale. Può spiegarci quale è stata la sua formazione di architetto e quali sono i suoi riferimenti culturali?

Come molti architetti della mia generazione, ho appreso che il primo principio della buona architettura è un onesto edificio funzionale, dove i principi costruttivi sono osservati e i materiali vengono espressi francamente. Grazie alle mie osservazioni sull'architettura indiana tradizionale, ho imparato a tenere conto di altri attributi, come i valori umani e le situazioni climatiche. La mia terza scoperta è stata l'espressione architettonica: la Cappella di Ronchamp di Le Corbusier ha certamente incrinato il principio della sincerità funzionale nell'edificio, ma ha introdotto un elemento poetico o - per usare un termine sanscrito - il gusto spirituale « rasa». La corretta espressione per le differenti tipologie di edifici è per me un principio importante, ma rimango fedele agli ideali di una architettura onesta e umana.

Cosa è stata secondo lei l'architettura indiana dopo l'Indipendenza e quali sono le sue relazioni con l'architettura coloniale e lo storicismo, ad esempio, con opere come quella di Lutyens a Delhi?

Sono cresciuto a Nuova Delhi che era stata disegnata come una città-giardino da Lutyens. L'aspetto imperiale della città aveva trasformato il tessuto democratico dell'India. La casa del vicerè britannico viene ora usata come sede del presidente indiano, e la sua sala delle cerimonie è utilizzata per le funzioni democratiche. La biblioteca principale che ho costruito è separata rispetto al complesso di Lutyens, perché rappresenta una estensione dell'edificio del Parlamento. Per me si trattava di una sfida: come elaborare un progetto che tenesse conto della vicinanza con il contesto coloniale, ma affermasse allo stesso tempo i valori democratici indiani? La funzione centrale della Biblioteca del Parlamento è di essere una «casa della conoscenza», simbolicamente un luogo di illuminazione. Poiché ci eravamo prefissi lo scopo di individuare una espressione architettonica di basso tono che esprimesse prudenza e eleganza spirituale, senza cercare di competere con la potenza del Parlamento, il progetto ha quindi concepito un edificio interno che riflettesse la specifica scelta per uno spazio recintato e subalterno, piuttosto che le forme della magnificenza coloniale-imperialistica. Mettendo a confronto la proposta della biblioteca con il Parlamento già esistente, può emergere in certo senso una analogia con la relazione che intercorre tra un guru e il re. In entrambi gli edifici, visivamente e simbolicamente, la sala centrale del Parlamento (che connota il potere dei popoli, il consenso e la democrazia) è unita con la parte centrale del nuovo complesso - emblema di conoscenza - su un asse centrale, attraverso una sequenza di spazi che culminano in un auditorium per 1100 persone. Abbiamo così concepito dentro la tradizione indiana una struttura formale, costruita però con un idioma contemporaneo, allo scopo di catturare l'essenza senza imitare gli stili storici del passato.

A proposito ancora della Biblioteca del Parlamento di Nuova Dehli, Krishna Menon, ha scritto che l'edificio dimostra che si può risolvere il perenne problema di «come è possibile scovare le proprie radici ed essere ancora moderni».

Rispetto alla Biblioteca del Parlamento, le soluzioni progettuali richiedevano che si tenesse conto di alcune importanti considerazioni. In primo luogo, l'edificio era stato costruito in quello che è forse il più importante sito dell'India, le cui ragioni storiche, culturali e urbane non potevano essere ignorate. Il mio obiettivo dunque era di disegnare un edificio che risuonasse con quella idea di istruzione che avevo percepito nelle tradizionali costruzioni buddiste e nei templi jain, ma di costruire con la tecnologia dei nostri tempi. Ho quindi ricercato il rispetto delle dimensioni degli edifici circostanti e ho costruito in armonia con il contesto.

È possibile parlare di una «architettura indiana», con una identità legata alla sua realtà politica di nazione, in presenza di un paese così vasto, che presenta una notevole varietà tra nord e sud, est ed ovest? E potrebbe chiarirci che cosa sia la «identità indiana» in architettura, ammesso che essa esista, e se siano individuabili i suoi principi generali?

L'immensa varietà dell'architettura tradizionale indiana può essere compresa sotto vari aspetti. Le storie dell'architettura l'hanno divisa in periodi: hindu, buddista, islamica e coloniale. Ma nell'architettura indiana alla base di monumenti, complessi civici e edifici vernacolari, esiste anche una secolare tendenza che spesso è stata ignorata nella letteratura, e i cui temi ricorrono in varie fasi dello sviluppo, emergendo nelle forme della contemporaneità. Gli architetti possono quindi guardare al passato per trarre ispirazione, oppure al contrario possono provare essi stessi a contraddire gli antichi modelli. Il metodo del costruire, le condizioni sociali e il clima hanno determinato l'evolversi dell'architettura indiana. E se le tecniche, così come le modalità della vita quotidiana, stanno fortunatamente cambiando, il fattore climatico rimane invece costante. Gli elementi tradizionali del progetto basati sul caldo clima indiano hanno quindi da sempre una forte rilevanza nei caratteri del nostro lavoro. Uno dei miei primi edifici era un complesso per una esposizione permanente di una fiera campionaria, costruito nel 1972 a Nuova Delhi. Lo spazio formato dal sistema strutturale segue le prescrizioni principali dell'architettura moderna per la copertura di ampie sale e la sua costruzione si adattava all'intenso lavoro dell'industria indiana. La pianta è composta di una vasta sala collegata a quattro sale più piccole con rampe intermedie, e include una corte centrale per mostre all'aperto e meeting. Come nei modelli della tradizione indiana degli spazi pubblici, la corte emerge come il punto focale dello schema. La sua geometria spaziale rimanda alla struttura mughal della tomba di Humayun. Personalmente fui sorpreso di aver ripreso, senza neanche rendermene conto, quel particolare riferimento. Ma compresi che le strutture formali indiane di tutti i periodi avevano una certa affinità secondo la disposizione degli spazi o la modulazione dei recinti. In dettaglio, il sistema strutturale del complesso espositivo era impiegato per rifrangere il sole e ideato nei termini della tradizione indiana jali, un modello geometrico di fori che compongono un elemento principale sulla facciata che serve a ostruire i raggi diretti del sole permettendo all'aria di circolare.

Tra la modernizzazione del vernacolare e la monumentalità del moderno - penso ai casi esemplari degli edifici di le Corbusier a Chandigarh e di Kahn a Dhaka - la sua architettura appartiene insieme a quella di Charles Correa a quel «postmodernismo indigeno», come è stato definito, che evoca la tradizione senza rinunciare alla lezione dei maestri dell'architettura occidentale. Cosa significa - e come si esprime nella sua opera architettonica - la modernità a confronto con la storia millenaria dell'India?

Noi abbiamo appreso da Le Corbusier e Kahn l'importante lezione che l'architettura moderna è in grado di esprimere profonde emozioni. Io non so se sia possibile definire la mia architettura come «postmoderna». Spero di avere evitato gli sterili aspetti del modernismo, così come il cliché di imitare il manierismo storico del passato, tipico di certi postmodernisti. Non credo che si possano trasferire i motivi architettonici dal passato negli edifici di oggi, ma sono convinto che l'architettura tradizionale possa darci delle importanti lezioni. Nel campo delle considerazioni climatiche, le città del Rajasthan e le città storiche italiane, con la loro tradizionale morfologia, hanno insegnato moltissimo per la loro bassa altezza e lo sviluppo ad alta densità delle abitazioni, e questo fattore ha direttamente influenzato il mio progetto di cinquecento unità di abitazioni a Nuova Dehli per il Villaggio dei Giochi Asiatici. Viene qui rigettato lo sterile modello istituzionale di abitazioni promosso dagli ingegneri dipartimentali per i lavori pubblici, basato su una infinita ripetizione di uno schema. Al contrario, è stato fatto un tentativo per creare norme urbane da una rete di strade pedonali e piazze. Una strada tangente il complesso consente l'accesso veicolare da due parcheggi terminali, circondati da sentieri pedonali che si collegano ai garage delle abitazioni. Il Villaggio dei Giochi Asiatici reinterpreta molti degli elementi salienti del design vernacolare che ha resistito alla prova del tempo.

Lo scorso anno, al Forum delle Culture di Barcellona lei ha usato parole molto critiche sulla «città verticale» e ha criticato il modello di crescita urbana che si sta sviluppando in Asia, in particolare modo in Cina. Contro la proliferazione dei grattacieli delle mega città di Shangai, Hong Kong e Beijing lei è il più strenuo difensore degli edifici a «scala umana». Ci può spiegare nel dettaglio come immagina la crescita delle città indiane e quali sono i suoi riferimenti teorici e gli esempi già realizzati che considera più interessanti?

Mi rendo conto che le «città verticali» sono inevitabili nelle zone-isola come Manhattan a New York o nelle città-stato come Singapore dove sono richieste eccezionalmente altissime densità abitative. Ma non vedo alcuna logica nella crescita verso l'alto di edifici destinati ad abitazioni in molte città asiatiche. In nome della globalizzazione povere copie dei luccicanti grattacieli made in Usa sono stati imposti a grandi città come Dubai, Beijing o Gurgaon, dove in realtà non hanno alcuna pertinenza né dal punto di vista climatico né da quello culturale. In tutti questi luoghi le forme sembrano seguire la finanza piuttosto che la funzione: ora, è inevitabile che il senso comune veda gli immobiliaristi perseguire la ricchezza, ma ciò non dovrebbe accadere a scapito dei valori umani. La mia opinione è che la bassa altezza e l'alta densità delle abitazioni è la soluzione umana. I nostri progetti per il Villaggio dei Giochi Asiatici o l'Istituto Nazionale di Immunologia sono due possibili esempi. Infatti, la scala delle città potrebbe derivare dai principi di sostenibilità e dagli armoniosi valori del vicinato.

Dai suoi interessi per l'espressione delle strutture deriva quello per lo sviluppo di tipologie e tecnologie per la costruzione di edifici a basso costo per i più poveri. Qual è la situazione in questo momento nel suo paese e a Dehli dove l'attività di Sharma e dell'agenzia Hudco (Housing and Urban Development Corporation) negli anni Ottanta è stata un'esperienza molto importante?

In India noi siamo fortunati a lavorare sotto l'ombrello dell'Hudco e altre organizzazioni pubbliche per progetti di abitazioni a basso costo. Il mio lavoro nel Nuovo Mumbai (Bombay) per abitazioni per poveri è stato un esempio interessante. Invece di costruire larghi blocchi monolitici paralleli di tetre dimensioni, noi abbiamo optato per specie differenti di modelli insediativi. È il caso del progetto per un vasto numero di unità residenziali, frammentato all'interno da più piccole aggregazioni che racchiudono una varietà di spazi e che possono essere congiuntamente ordinate sul versante di una collinetta e disposte insieme con sentieri pedonali. Ma modulando e cambiando le formazioni dei gruppi basati sullo spazio standard, si possono ottenere differenti unità residenziali. A causa del costo dovuto, non è possibile aumentare lo spazio standard per l'abitazione sociale, ma sicuramente un vocabolario di soluzioni progettuali può essere elaborato per gli spazi esterni, al tempo stesso privati e pubblici. Le città del Rajasthan e i villaggi mediterranei forniscono importanti lezioni in questo senso per lo sviluppo ad alta densità. Studi di modelli tradizionali di convivenza forniscono spunti per luoghi che possono promuovere attività collettive, come gli spazi di riunione per gli adulti o le aree per il gioco dei bambini. Il nostro scopo era creare piacevoli recinti di vicinato per la socializzazione e la ricreazione: l'ambiente in casi del genere incoraggia l'amicizia tra le persone di diverse esperienze.

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