La discussione su Milano si accende e spegne senza sedimentare una riflessione organica. Le indagini del Corriere nei quartieri della città hanno evidenziato i problemi che interessano soprattutto la periferia urbana. Il sindaco Moratti ha ricordato che Milano ha anche qualità, tante eccellenze e che è un errore fermarsi a parlare solo del suo degrado. Adriano Celentano ha accusato architetti e amministratori di avere reso la città brutta. Report ha sostenuto che a Milano assistiamo a una versione aggiornata di Mani sulla città. Il che è evidentemente non vero, anche se la crescita del mercato immobiliare ha costruito ricchezze che si sono trasformate in enormi concentrazioni di potere.
Da questo insieme di voci sovrapposte e intermittenti mi sembra emergano tre temi. Il primo è la necessità di costruire e rendere trasparente un discorso pubblico sulla città, su dove vuole andare, quali obiettivi si vuole proporre per il futuro oltre all'assegnazione dell'Expo 2015 e l'avvio della pollution charge. La mancanza di tale discorso crea disorientamento e affida la giustificazione di ogni singola scelta ad argomentazioni contingenti. Il caso della Fiera è un esempio. La costruzione del nuovo polo a Rho-Pero è stato «autofinanziato » dalla Fondazione Fiera vendendo l'area del polo interno dove sarà realizzato il progetto City Life. Posto che la Fiera rappresenta uno degli asset strategici della città e che era necessario decentrarla per consentire vivibilità al quartiere ed efficienza alle funzioni fieristiche, è stato giusto concentrare volumetrie elevatissime nell'area lasciata libera per finanziare lo spostamento? Esistevano alternative? L'area interna poteva rispondere ad altre esigenze della città — case in affitto accessibili per i giovani, verde, servizi — se non la si fosse usata come strumento finanziario? In assenza di un discorso pubblico sulla città non sappiamo in che relazione stiano obiettivi di competitività economica e di risposta ai bisogni dei cittadini e quindi ogni operazione di trasformazione urbana deve ricostruire le proprie ragioni, giungendo a scelte che spesso appaiono incomprensibili.
Il secondo tema sorto dal recente dibattito riguarda le periferie urbane e l'assenza di un centro di coordinamento delle decisioni sui quartieri. È ora di dire che i «grandi progetti urbani» non sono solo quelli che riguardano i luoghi noti, da Santa Giulia a Garibaldi-Repubblica. Occorre un grande progetto urbano per le periferie milanesi, possibilmente in accordo con i Comuni di prima cintura, investendo intelligenza, capacità tecnica e risorse economiche. Fino a quando non ci sarà una mobilitazione straordinaria con una guida interna che sappia integrare le diverse competenze, dialogare con i cittadini, e con i Comuni contermini, saremo sempre costretti a fare solo l'elenco delle molte cose dimenticate.
Il terzo tema è quello della qualità della vita e della bellezza della città, oggi bene primario. Abbiamo bisogno di una città più accogliente, amichevole e facile da vivere, non solo per i suoi abitanti ma anche per favorire il suo sviluppo economico. I settori trainanti non sono più le grandi imprese ma le università, i centri di ricerca, i settori del design, della moda, della finanza, dei media. Settori che richiedono, per potersi sviluppare, di attrarre talenti ma anche di ospitare gli addetti ai servizi che questa città fanno funzionare. Persone che qui dovrebbero (anche) trovare la possibilità e il piacere di vivere, stabilirsi e crescere i figli.
Si tratta in conclusione di imparare dalla discussione avviata senza disperderla, in una nuova direzione che porti a superare gli stereotipi del passato, le contrapposizioni ideologiche e a lavorare per una città ancora competitiva ma più capace di affrontare i suoi problemi.
Nota: Alessandro Balducci è Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano (f.b.)