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Un passo per cambiare Dublino
Alcuni giorni fa, la Germania ha adottato una decisione generosa riguardo al problema dei profughi, offrendosi di dare asilo ai siriani, in deroga al regolamento di Dublino, in base al quale la responsabilità spetterebbe allo stato membro di primo ingresso nel territorio Ue. A seguito di questa scelta, il governo tedesco si è trovato a fronteggiare un flusso assai meno controllabile di quanto immaginato. Ha quindi fatto una temporanea marcia indietro, richiamando gli altri paesi membri alla propria responsabilità in relazione alla ripartizione dei profughi.È possibile che il risultato netto di tutta l’operazione sarà un semplice ritorno alla soluzione (insoddisfacente) concordata a fine luglio: non una ripartizione “obbligatoria” in base alle capacità economiche e agli sforzi già sostenuti da ciascuno stato, come originariamente proposto dalla Commissione Ue, ma la ricollocazione di poche decine di migliaia di profughi, a parziale sgravio di Italia e Grecia, sulla base della (scarsa) disponibilità dimostrata da alcuni stati soltanto.
In questo caso, non vi sarà alcuna variazione sostanziale del meccanismo imposto dal regolamento Dublino e il carico continuerà a gravare sui paesi membri di primo ingresso, senza che gli altri vedano motivi per abbandonare il loro atteggiamento defilato. Qualora invece si arrivi ad approvare la soluzione proposta dalla Commissione (con una vera ripartizione degli oneri) e il flusso conservi i ritmi attuali, è possibile che, nel volgere di un paio d’anni, si possa vedere una revisione della normativa Ue, col mantenimento di un diritto d’asilo esigibile senza limiti numerici per i soli soggetti personalmente perseguitati (i rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951). Per quanti fuggano da una guerra, oggi titolari di un pieno diritto alla protezione sussidiaria non appena abbiano messo piede nel territorio della Ue, resterebbe lo strumento della protezione temporanea, concessa entro limiti fissati volta per volta.
Rifugiati giovani e determinati
Questa soluzione avrebbe il vantaggio di rendere prevedibile lo sforzo richiesto, togliendo argomenti a coloro che paventano invasioni incontrollate. Lo svantaggio sarebbe invece rappresentato dal rischio di un approccio poco generoso. Per evitare che l’atteggiamento degli Stati più tirchi paralizzi l’intera Ue, si dovrebbe accettare che l’Unione proceda a diverse velocità, lasciando che ciascuno stato stabilisca da sé il limite numerico che lo riguarda (la cosa è già prevista dall’articolo 25 della direttiva 2001/55/Ce). Il successo di un approccio generoso servirebbe a mandare un segnale a quei paesi membri che lo sono di meno. Ma è credibile che la generosità si traduca in un successo per lo stato che la pratica? Se guardiamo alla straordinaria capacità, dimostrata da moltissimi profughi, di affrontare fatiche e pericoli, questo è possibile: si tratta di favorire l’inserimento sociale e lavorativo di una popolazione giovane e fortemente motivata. E un’economia vecchia e spenta come quella europea non potrebbe che giovarsi di questa iniezione di motivazione.
Un ostacolo potrebbe essere costituito da un atteggiamento eccessivamente assistenziale, che si preoccupi solo di fornire alloggio e sostentamento ai profughi, con grandi oneri per le finanze pubbliche e scarsi incentivi all’inserimento lavorativo per i beneficiari. Per aggirarlo si dovrebbe superare il tradizionale timore di esporre l’istituto dell’asilo a un uso strumentale da parte di migranti economici, oggi oggetto di uno stigma generalizzato quanto ipocrita (non è forse una submigrazione economica quella che spinge i profughi siriani a muoversi da paesi di primo rifugio, nei quali non corrono più pericolo immediato, verso la Germania o la Francia?). Si dovrebbe anzi favorire in ogni modo l’accesso al lavoro dei richiedenti asilo (in questa direzione si muove il decreto legislativo 142/2015, appena pubblicato), in modo che i loro mezzi di sostentamento provengano, in misura prevalente, proprio dalla retribuzione di prestazioni lavorative.
Gli stati che soffrono di alti livelli di disoccupazione interna incontrerebbero naturalmente maggiori difficoltà nel percorrere questa strada. Ugualmente, essendo questi stati gli stessi nei quali in genere più fragili sono le strutture di welfare a disposizione dei cittadini più deboli, esistono ampi margini per far emergere una domanda di servizi alla persona, oggi inespressa, da parte di fasce della popolazione bisognose, non in grado di remunerarli: lo stato potrebbe allora fungere da sponsor per queste fasce, finanziando i servizi necessari.
Se si giungesse a constatare che l’afflusso di stranieri fortemente determinati a migliorare attivamente la propria condizione di vita può costituire un fattore di sviluppo economico per l’Unione Europea, si potrebbe provare a vedere sotto nuova, più coraggiosa, luce l’immigrazione puramente economica e a estendere all’immigrazione straniera molti dei meccanismi che oggi regolano quella comunitaria.