il manifesto, 22 agosto 2018. «Disastro di Genova. La logica capitalistica è quella della remuneratività a breve degli investimenti». (m.p.r.)
Mi è parso strano, in questi giorni, che quasi nessuno si sia ricordato del disastro del Vajont (9 ottobre 1963; 1.910 morti). Anche quella era una meraviglia dell’italica genialità dell’ingegneria del cemento armato: la diga più alta del mondo, inaugurata pochi anni prima. Anche allora la società privata che la gestiva (la Sade) – e con lei tutte le autorità statali e le principali fonti di informazione – preferì ignorare gli allarmi pur di non interrompere la produzione e deprezzare i propri capitali. Ma potremmo citare centinaia di altri casi di tragedie provocate dal collasso di infrastrutture e impianti produttivi industriali.
Per non andare lontano da Genova pensiamo all’incendio della petroliera Haven (11 aprile 1991, 5 morti) e alla ThyssenKrupp (5 dicembre 2007; 5 morti). Certo, per ogni evento ci sono colpe soggettive rilevanti (anche se quasi mai davvero perseguite), ma c’è anche una logica comune che sottende il modus operandi di investitori, proprietari, gestori, autorità regolative e, più in generale, il pensiero moderno di sviluppo, progresso e prosperità. Pensiamoci per un istante.
E’ stato detto da un allievo dell’ing. Morandi, progettista del viadotto Polcevera, (intervista al docente Sylos Labini dell’Università La Sapienza, Il ponte Morandi è arte, il manifesto, 17 agosto) che il ponte è stato costruito in cemento armato tenendo conto «anche al rapporto costi-benefici (…). L’acciaio per l’economia italiana del periodo era proibitivo, i costi non avrebbero reso possibile la costruzione dei ponti». Ho letto e ascoltato basito che opere pubbliche come quelle in questione sono programmate per un tempo di vita predefinito di 50-60 anni. Ho pensato agli acquedotti romani e al ponte di Rialto e ho capito i differenti modi di concepire le attività umane delle diverse civiltà.
Ma pure ammettendo che la nostra civiltà super-accelerata, iperconsumistica e priva di senso del limite sia la più moderna e desiderata possibile, perché i suoi progettisti e i loro committenti e finanziatori non programmano anche le manutenzioni e il fine ciclo dell’opera preferendo invece spremere il limone fino a bucare la scorza? Mi è stato detto che per una grande impresa risarcire i danni di disastri è spesso più economico che modificare i propri piani produttivi. Non a caso uno dei motori di questo “sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica che guida l’economia capitalistica è stata sempre quella della remuneratività a breve degli investimenti. Peccato che questi “utili” siano stati garantite ai Benetton e agli altri “capitani coraggiosi” dell’imprenditoria italiana dalle generose privatizzazioni e svendita del demanio dello Stato avviate dai governi dell’era iperliberista.
Permettetemi una antipatica autocitazione (Liberazione, 15 giugno 2006), quando Rifondazione Comunista tentò di bloccare le proroghe concesse dal ministro Di Pietro alle concessioni autostradali: «È del tutto evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio monopolistico naturale. Nessuno è libero di scegliere quale autostrada percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o servizi unici. Affidare a privati la loro gestione significa regalare una rendita di posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità di vigilanza, controlli… costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente inutili, solo se la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole pubbliciste. È tempo di fare un bilancio “laico” delle privatizzazioni. È tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione della proprietà di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità universale garantita (quali l’acqua e l’energia) o per ragioni banalmente materiali, quali la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai essere merce scambiabile in mercati davvero aperti e liberi…».