Ma come? Si continua a scuotere la testa sulla crisi rovinosa dei Valori, ci si mette addirittura a piangere sulla ineluttabile scomparsa dei Valori, ci si conduole pubblicamente ad ogni passo con quanti ancora credono, ingenui, alla esistenza dei Valori, e poi, appena qualcuno pretende di affermare che il lavoro “è un valore”, che la sua giornata-simbolo - il 1° Maggio - va rispettata con qualche concessione al consumismo, al turismo, al consumerismo, si prende del “retrogrado”, anzi del “regredito” al passato, al primo Novecento, magari all’Ottocento? Non a caso non piace più nemmeno che l’Italia sia, costituzionalmente, una “repubblica fondata sul lavoro” e la si vorrebbe rifondare su altri “valori”. Non ha forse detto Silvio Berlusconi che la nostra Costituzione è nata “sovietica”? Del resto l’espressione “fondata sul lavoro” la propose alla Costituente un “comunistello di sacrestia” come Amintore Fanfani che quella denominazione si era meritato insieme a Giuseppe Dossetti e a Giorgio La Pira. Quest’ultimo, da sindaco di Firenze, organizzò una memorabile conferenza internazionale sul Mediterraneo, mentre il suo attuale successore promuove una crociata per tenere aperti tutti i negozi il 1° Maggio. Visioni un po’ distanti. Ma oggi non si è “moderni” se non si rottama qualcosa, magari anche la Festa del Lavoro (scusate le maiuscole, ma è colpa dell’età).
Il ministro del Welfare, il prode Sacconi Maurizio, che Gianni De Michelis in una perfida intervista sostenne di aver scoperto su un campo di tennis dove insegnava (Sacconi, non De Michelis), vorrebbe infatti che si parlasse di “lavori” e non più di “lavoro”. Per cui, frantumato, sminuzzato, parcellizzato in tanti pezzi e pezzetti il lavoro, resolo flessibile, modulabile, adattabile, perché mai si dovrebbe continuare a festeggiarlo? Come valore simbolico? Già, ma di che cosa? Facciamo come i giapponesi che il 1° Maggio non l’hanno (credo) mai celebrato. Mi capitò una volta di arrivare a Tokio un 1° Maggio e tutto funzionava, tutti correvano, pedalavano, producevano, lavoravano come formiche alacri e ubbidienti. Un modello. A me, a noi italiani faceva una certa raggelante impressione.
Ripensavamo alle origini della festa del lavoro, alla grande manifestazione operaia di Chicago, il 1° Maggio 1886, alla polizia che la reprime sparando sulla folla, e la colpa viene rigettata sui soliti anarchici (succede ancora) poi condannati a morte senza prove, uno trovato già cadavere in cella e altri 4 impiccati. Anche in Italia diventa presto una data-simbolo, per rivendicare altri diritti fondamentali come il suffragio universale. Alla fine dell’800 lavoratrici e lavoratori festeggiano 1° Maggio totalmente a loro spese, cioè scioperando, privandosi di un giorno di paga. A Voghera, all’epoca ricca di fabbriche tessili, gli operai costretti dai padroni al lavoro, protestano recandovisi vestiti della festa. Uno scandalo. Tanto più che intonano pure un coro verdiano dell’”Ernani” (“Si ridesti il leon di Castiglia”) al quale un vivacissimo giornalista locale, Ernesto Majocchi, ha dato nuovi versi: “Su compagni, lasciate le glebe/Questo giorno sacrato alla plebe/Della plebe sarà il redentor/Siamo tutti una sola famiglia/Operaj della penna e del braccio/Su venite correte all’abbraccio”…
Una festa gioiosa e ribelle dunque. Che Benito Mussolini subito abolisce. In Romagna, nella stessa natia Predappio, la si continua a festeggiare di nascosto con una minestra allora di lusso, i tortelli. Allora i fascisti locali vanno nelle case degli antifascisti, i fratelli Cappelli, i Cagnani, i Farneti, e se scoprono che sta bollendo una pentola coi tortelli, rovesciano tutto sul pavimento per spregio. Ma qualche bandiera rossa – mandandoli in bestia – intanto è comparsa lo stesso sulla ciminiera di una fornace, o sull’albero di un viale.
Tante altre lotte, tante altre vicende simboliche sono legate al 1° Maggio. Roba vecchia? Roba superata? Certo, per chi non vuole più ricordare chi eravamo, da dove siamo venuti, dove vogliamo dirigerci. Verso una società “bottegaia” di consumatori pilotati e indistinti. Pilotati dalle tv commerciali. Indistinti perché senza più identità. La mattina del 25 aprile Raitre, meritoriamente, ha trasmesso il più bel film di Florestano Vancini “La lunga notte del ‘43” dal racconto di Giorgio Bassani. Uscito nel 1960, indicava nell’indifferenza rispetto alla propria storia la causa prima di una società piatta, soddisfatta di sé e, quella sì, retrograda. Il finale era un vero pugno nello stomaco.
E adesso? Chi osa dire che un popolo senza memoria ha già ucciso anche la storia e quindi non ha più futuro, sia subito ridotto al silenzio e magari rottamato. Non è “moderno”, fa danno a sé (pazienza) e soprattutto agli altri, ai più giovani. I quali (per lor signori) è bene che non ricordino quella festa “ribelle” da vivere gioiosamente.