«Alcuni brani da La parola contraria di Erri de Luca, da oggi nelle librerie per Feltrinelli. La difesa preparata dallo scrittore nel processo che lo vede imputato per le sue dichiarazioni sulla necessità di bloccare i lavori in Val di Susa». Il manifesto, 8 gennaio 2015
Uno scrittore ha in sorte una piccola voce pubblica. Può usarla per fare qualcosa di più della promozione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria. Tra i tutti comprendo in prima fila i muti, gli ammutoliti, i detenuti, i diffamati da organi d’informazione, gli analfabeti e chi, da nuovo residente, conosce poco e male la lingua.
Prima di dovermi impicciare del mio caso, posso dire di essermi occupato del diritto di parola di questi altri.
«Ptàkh pìkha le illèm»: apri la tua bocca per il muto (Proverbi/Moshlé 31,8). Oltre a quella di comunicare, è questa la ragione sociale di uno scrittore, portavoce di chi è senza ascolto. Salman Rushdie con il suo romanzo Versetti satanici ha scatenato manifestazioni di masse islamiche contro una blasfemia risentita nel suo racconto. Delle persone sono scese in piazza e sono morte per questo effetto di reazione. Il romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther scatenò un’ondata di suicidi nei giovani europei.
Con minori conseguenze, Reinhold Messner 25 con le sue pubblicazioni ha attirato lettori a salire in montagna e alpinisti a tentare le sue imprese. Mauro Corona ha fatto venire voglia ai suoi lettori di visitare Erto e la diga del Vajont. Questi sono casi di istigazione? O con più proprietà di linguaggio e nessuna conseguenza penale semplicemente suggestioni dovute al verbo ispirare? Se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori del suo controllo.
Le parole possono solo questo, anche quando incitano a più impetuosi impegni: Aux armes citoyens è istigazione presente nella Marsigliese, inno nazionale francese, il più bello che conosco. Incita alla guerra civile, a prendere le armi contro il tiranno. Fa da colonna sonora sottintesa di ogni insurrezione. Claude Joseph Rouget de Lisle, autore del testo, aspetta da un paio di secoli denuncia per istigazione.
L’utopia non è il traguardo ma il punto di partenza. Si immagina e si vuole realizzare un luogo che non c’è ancora.
Uno stupro del territorio
La Val di Susa si batte dal tempo di una generazione per il motivo opposto: perché il luogo ci sia ancora. Non quello immaginato da chi, pur di realizzare profitto su uno dei tanti grandi lavori, è indifferente al danno procurato alla salute pubblica. Utopia, e delle peggiori, è l’asservimento di un territorio a una speculazione dichiarata, per meglio abusare, strategica. Le perforazioni e la polverizzazione di giacimenti di amianto fanno inorridire chiunque abbia notizia del guasto micidiale di uno spargimento delle sue fibre tossiche. La mia definizione è: stupro di territorio. La Val di Susa si batte contro il disastro ambientale per scongiurarlo, per non doverlo piangere dopo. Si tratta della più intensa e durevole lotta di prevenzione popolare. Paga questa sua volontà con una repressione su scala di massa e con la militarizzazione della sua vita civile.
Una grande prepotenza pretende di schiacciare le ragioni e i corpi di una piccola vallata. Resistono da una generazione con determinazione commovente. Da commosso ho aderito alle loro ragioni aggiungendo spesso e da molti anni la mia presenza fisica alle loro manifestazioni. Il nostro paese ha bisogno di rinnovarsi scrollandosi di dosso i parassiti delle corruzioni, degli interessi privati a danno delle pubbliche spese, dei privilegi. L’organismo è sano ma il suo manto è aggredito. In Val di Susa il corpo reagisce e ostacola lo scavo degli acari infestanti, dei tarli rosicchianti le montagne. La resistenza civile produce gli anticorpi necessari.
Così pure a Lampedusa una comunità ha saputo reagire alla degradazione imposta da leggi criminali. Gli ordini venuti dal continente hanno voluto stringere un nodo scorsoio intorno all’isola e farne terra chiusa. I Lampedusani hanno slegato e fatto terra aperta.
Dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi.
Perché si dia istigazione alla violenza bisogna dimostrare la connessione diretta tra parole e azioni commesse. In una dichiarazione riportata su «Left», supplemento di «l’Unità» (21 giugno 2014), Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale, afferma: «L’articolo 21 della nostra Costituzione ci permette la massima libertà di esprimere le nostre opinioni. Per questo i pubblici ministeri, in un caso come quello di De Luca, dovranno dimostrare la connessione diretta tra le parole e l’azione… Se non si può dimostrare un’immediata successione di eventi tra parole e azioni, allora il reato non esiste».
Istigazione alla violenza: negli anni passati degli autorevoli esponenti di partiti, con largo seguito di iscritti e militanti, hanno di volta in volta pubblicamente minacciato il ricorso alle armi per raggiungere dei loro obiettivi. In altre circostanze hanno annunciato il ricorso all’evasione fiscale di massa. Non sono stati inquisiti dalla magistratura per il reato di istigazione.
Omissione di confronto
Sono d’accordo: anche se investiti di autorità e di conseguente facoltà di promuovere azioni criminose presso il largo seguito di aderenti, hanno esercitato il loro diritto di parola. Nel mio caso la pubblica accusa afferma che le mie parole hanno avuto un seguito di azioni. Mi attribuiscono un ruolo che nemmeno gli alti esponenti di partito hanno avuto.
Non appartengo a nessuna formazione politica. Partecipo da cittadino a manifestazioni che condivido e per interesse di testimone. Ma la pubblica accusa afferma che avrei influenzato il comportamento di persone e la commissione di reati.
Si è arrivati a pronunciare questo ragionamento: dopo le mie frasi si sono prodotti tali episodi. E prima delle mie frasi? Manca per omissione il confronto. Dopo la fabbricazione dei fazzoletti di carta le persone si sono soffiate il naso. E prima? L’argomento è di quelli messi in ridicolo da un buon millennio e fissati dalla frase latina: «Post hoc, ergo propter hoc»: dopo di questo, dunque a causa di questo.
I pubblici ministeri hanno esibito un elenco di episodi compiuti da militanti No Tav, compilato dalla Digos di Torino, accaduti a partire da settembre 2013. Tutti questi episodi sono stati rivendicati da anonimi militanti No Tav che dichiaravano di avere agito in solidarietà con quattro loro militanti arrestati. Tutti gli autori degli episodi di quell’elenco hanno agito per sostenere la causa dei loro compagni. Almeno uno, uno solo, poteva aggiungere, magari anche in margine come postilla: e poi perché l’ha detto De Luca sull’«Huffington Post».
I pubblici ministeri esibiscono come dimostrazione un elenco incompleto, privo di raffronto con il periodo precedente, e che per giunta dimostra il contrario.
Quegli episodi non c’entrano niente con le mie frasi incriminate da loro.
Dalle mie parti, al Sud, esiste un altro tipo di responsabilità della parola. Uno augura il peggio a una persona e quella più tardi subisce un incidente. Il tale del malaugurio viene ritenuto responsabile dell’accaduto e dà così avvio alla sua fama di iettatore.
Quando in uno stadio del Nord Italia si incita la natura invocando «Forza Vesuvio» si sta istigando un vulcano all’eruzione. La reazione da parte meridionale non è stata una denuncia ma l’esorcismo efficace di una grattatina in zona pubeale. Che la linea Tav in Val di Susa possa essere sabotata, che possa non sbucare dall’altra e da nessuna parte. Che possano finire i fondi pubblici destinati all’affarismo di aziende collegate ai partiti. Che un governo di normali capacità di intendere e volere la lasci incompiuta, come già altri 395 (trecentonovantacinque) grandi lavori in Italia. Che possa essere dichiarata disastro ambientale e i suoi responsabili perseguiti per questo. La linea Tav va sabotata: la frase rientra nel diritto di malaugurio.
Ministri di questo e di altri governi hanno dichiarato la linea Tav in Val di Susa opera strategica. Strategico è aggettivo di origine militare, stratega era il comandante dell’esercito greco. L’effetto è anche militare: il cantiere della perforazione e la vallata sono sotto presidio di forze armate oltre che di corpi di polizia e carabinieri.
Stati di emergenza
Area di interesse strategico vuol dire semplicemente area sottratta a dissenso, dove non si può protestare e dove pertanto si può usare l’esercito con funzione di ordine pubblico. La definizione di area d’interesse strategico è pomposa ma recente. Applicata al cantiere Tav di Chiomonte, con legge del 12 novembre 2011, è stata in precedenza inventata per la Regione Campania, allo scopo di proteggere dalle proteste civili la costruzione di impianti di smaltimento rifiuti. Si capisce che l’aggettivo «strategico» infilato nella legge del 2011 è stato preso dalla spazzatura (il DL 23/5/2008 n. 90 32 attribuisce qualifica di «area di interesse strategico nazionale» a siti, aree, impianti connessi alla gestione di rifiuti).
Sono incriminato per avere espresso la necessità di sabotare un’opera strategica per lo Stato. Ma a costituirsi parte civile contro di me è una ditta privata, Ltf sas. Non dovrebbe essere lo Stato con la sua avvocatura? Lo Stato non si ritiene danneggiato dalla mia insubordinazione contro l’opera così decisiva per le sorti pubbliche? Si nasconde dietro la parte civile di una qualunque ditta privata?
A proposito, la ditta in questione non è italiana ma francese, con sede a Chambery: ltf sta per Lyon Turin Ferroviaire. Bizzarrie del destino: caso vuole che in Francia non siano in vigore le nostre normative antimafia nell’assegnazione degli appalti. Caso vuole che per la Francia la linea Lyon-Torino non sia strategica né prioritaria. L’entusiasmo della ditta ltf non è condiviso in patria.