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Priebke, Fosse Ardeatine, Via Rasella
6 Maggio 2004
La Resistenza
Due articoli, di Walter Veltroni e di Miriam Mafai, su la Repubblica rispettivamente del 7 e 6 marzo 2004.

Essi esprimono bene i sentimenti di molti italiani nei confronti della proposta di graziare uno dei responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. 337 persone, scelte a caso nelle carceri romane, furono assassinate in una cava di tufo per vendicare trenta soldati tedeschi uccisi in un attentato a Via Rasella. Aggiungo una lettera che ho mandato a Radio Tre per contestare una sciocchezza detta da una signora a proposito dei “veri colpevoli” della strage nazista, in calce agli articoli

Miriam Mafai Quel diritto a non perdonare

Siamo tutti un legno secco della storta pianta umana: Priebke che passa gli ultimi anni della sua vita nella casa romana del suo avvocato, Adriano Sofri che passa gli anni della sua maturità in una cella del carcere di Pisa, l´ignoto extracomunitario condannato per traffico di droga, la ragazza di Novi Ligure che ha ucciso la madre e il fratellino e che è stata condannata a non so quanti anni di carcere. Legni secchi della storta pianta umana. Ma nessuno, salvo Priebke, ha condotto al macello e macellato, con un colpo alla nuca, non so quanti giovani e meno giovani romani un giorno di marzo del lontano 1944.

Io non ho avuto né parenti né amici seppelliti in quel carnaio. Non sono dunque tra coloro che potrebbero o dovrebbero, secondo Adriano Sofri, perdonare quello che era allora un giovane ufficiale tedesco e che oggi è un novantenne condannato all´ergastolo, e consentirgli di tornare a casa sua, a Barilolce, dove lo aspetta una moglie altrettanto vecchia e malata. Ho visto anch´io i manifesti affissi sui muri di Roma nei quali i promotori di una manifestazione per la grazia a Priebke accostavano il suo nome a quello del detenuto di Pisa. Un accostamento osceno. Ma non riesco, per quanto onestamente mi sforzi, a condividere la posizione di Sofri, quando chiede alla comunità ebraica di Roma di perdonare l´ergastolano, o più precisamente , di «voltare le spalle e il viso alla scena nella quale si consumerà il tempo estremo di uno che si prestò ad essere un odioso nemico». Non faccio nemmeno parte della comunità ebraica di Roma. E non credo che si debba chiedere a questa un atto di generosità o di comprensione. Anche perché tra le vittime delle Ardeatine non c´erano solo ebrei, ma anche ragazzi che, nati e cresciuti a Roma, non sapevano forse nemmeno dove fosse la sinagoga, e ufficiali del nostro esercito che, combattendo contro i tedeschi, pensavano di servire ancora il Re.

A me sembra che nessuno di noi, dei sopravvissuti a quelle tragiche vicende, abbia il diritto di perdonare. Solo le vittime potrebbero , forse, farlo. Ma quelle non ci sono più. Sono state sepolte sotto la calce e il tufo di quella cava a pochi chilometri dal centro della nostra città. Ci sono reati, i delitti contro l´umanità, che non cadono mai in prescrizione. Tra poche settimane , il 20 aprile, sarà celebrato a La Spezia il processo contro gli autori della strage di S. Anna di Strazzena, dove nel maggio del 1944, centinaia di civili vennero trucidati, molti bruciati vivi con i lanciafiamme (non vennero risparmiati nemmeno i bambini, nemmeno le donne in stato interessante) da un gruppo di SS agli ordini di un certo sergente Sontag. Non credo si esprima in questi tardivi processi nessuna volontà di vendetta. Ma un desiderio di verità e di giustizia sì. Ed io credo che questo desiderio di verità e di giustizia non possa, non debba, venir soverchiato dalla pur comprensibile umana pietà di cui si è fatto interprete e portatore Adriano Sofri, l´unico che può farlo con tanta sensibilità, intelligenza, e pudore. Io, lo confesso, non ci riesco. E, da legno secco della storta pianta umana di cui tutti siamo fatti, non credo che questo mio sentimento possa essere considerato alla stregua di una mancanza di umanità, quasi una colpa.

Il nostro mondo è ancora oggi pieno di atrocità consumate a danno di vittime innocenti. Il fatto che tali atrocità vengano ancora commesse non ci esime dal ricercare e condannare i responsabili di quelle commesse nel passato. Al contrario. Se chiedo, sia pure invano, che Pinochet, ormai vecchio e gravemente malato, sia condannato per i suoi delitti, non vedo perché dovrei provare compassione per il vecchio nazista che è stato riconosciuto, e si è ammesso colpevole della strage delle Ardeatine.

Per questo, a differenza di Sofri, ho condiviso la decisione di Walter Veltroni e del prefetto Serra di non concedere una piazza della nostra città a coloro che intendevano manifestare a favore della grazia per il vecchio e non pentito nazista.

Per questo ho apprezzato le parole pronunciate ieri sera dal presidente Ciampi che ancora una volta ha saputo interpretare i sentimenti della maggior parte di questo Paese, cui qualcuno vorrebbe impedire di ricordare il proprio passato, sottoponendolo ad una sorta di lobotomia in virtù della quale nessuno dovrebbe più essere in grado di distinguere le vittime dagli assassini.

Walter Veltroni Priebke, una ferita ancora aperta

Caro Adriano, ho letto il tuo articolo di venerdì su Priebke. L´ho letto con l´interesse e la partecipazione che ho sempre per le tue osservazioni, per i tuoi ragionamenti, per le immagini con cui accompagni spesso il tuo argomentare. Puoi immaginare come mi abbia colpito il tuo disegnare quel «detenuto anziano, grande e pesante, nel pigiama triste del ricoverato» che cade in ginocchio e scoppia in lacrime quando gli dicono che se ne potrà andare a casa, in Calabria, a trascorrere lì il suo ultimo tempo. E puoi anche immaginare, credo, come io sia d´accordo con te, in principio, su un altro tuo ritratto: quello del «legno secco della storta pianta umana» , della comunanza tra simili di cui tutti dovremmo avere di più, sempre, piena consapevolezza.

Proprio qui, però, mi sono fermato un primo momento, nel leggerti. Qui, dove dici anche che «non occorre sapere chi sia, né chi sia stato» , quell´uomo dal triste pigiama d´ordinanza al quale viene concessa la libertà. È vero, è come dice Miriam Mafai: le ragioni di umana pietà per cui a tuo avviso Erich Priebke potrebbe tornare a morire a casa sua, in Argentina, da sua moglie, tu le esponi in tutto il seguito dell´articolo con la sensibilità e l´intelligenza di sempre, e anche con un giusto pudore. Io però proprio su questo punto, vorrei soffermarmi. Qui non c´è, caro Adriano, solo «un ramo secco». Qui c´è una enorme ferita aperta, che attraversa la carne viva, che fa soffrire i cuori e non abbandona, non può abbandonare, le menti. Qui c´è la tragedia di un popolo intero e di una comunità, quella degli ebrei romani, di tutta Roma, che è molto più grande, troppo più grande, di un´aula di giustizia, di un «semplice» delitto e di una sentenza, di una domanda di grazia. E nel caso di Priebke io non riesco - credimi, non riesco - a non pensare a chi sia, e a chi sia stato, quest´uomo. Può darsi sia qualcosa che va al di là delle orribili colpe di cui può essersi macchiato un individuo colpevole non di un omicidio, ma di una strage di innocenti in ginocchio, di bambini e di reclusi a via Tasso; una strage per la quale è scappato, lasciando dietro di sé il dolore inumano di tante famiglie, che hanno il diritto di veder rispettati i loro sentimenti, il loro dolore, e se credono il loro diritto a non perdonare. Può darsi che sì, la Storia arrivi ad essere davvero troppo grande e complessa per un uomo che oggi ha più di novant´anni, e d´altra parte la Storia fu ancora più grande e atroce per chi stava da quest´altra parte, e la vita la perse a venti o trent´anni, preso in un ingranaggio infernale che non aveva voluto, che non comprendeva, che odiava.

Ma è così, e io credo sia davvero difficile, allora, non pensare, dimenticare anche solo per un attimo, a chi è stato Priebke, a cosa furono le Fosse Ardeatine, a cosa sono oggi, simbolo della storia e della vita del nostro Paese, spazio fondamentale di quella memoria collettiva che è elemento costitutivo di una società civile. Quel passato dobbiamo continuare a guardarlo. Dobbiamo starci di fronte, coi piedi ben piantati per terra, accompagnati da chi lo visse e lo subì, tenendo a nostra volta per mano i ragazzi di questa generazione, perché non dimentichino, come abbiamo fatto ad esempio durante il viaggio con i ragazzi delle scuole romane ad Auschwitz, lo scorso ottobre. Io temo, caro Adriano, che non sia possibile e non sia giusto «voltare le spalle e il viso» nemmeno alla scena che vedrà consumarsi il tempo estremo di quest´uomo di novant´anni, perché a sua volta - ripeto, forse al di là del suo stesso essere uomo - egli è un simbolo di qualcosa di troppo grande e atroce, davvero di «un delitto contro l´umanità che ha colpito profondamente i sentimenti del popolo italiano», come ha voluto sottolineare il presidente Ciampi. È una ferita aperta, troppo profonda. Lo capisci dal dolore ancora vivo dei parenti, lo senti dalle loro parole, lo vedi dai loro sguardi quando ogni 24 marzo in un silenzio doloroso e irreale vengono letti, uno per uno, i nomi delle 335 vittime. È lo stesso sguardo di chi pensa o torna a Marzabotto e a Sant´Anna di Stazzema, ad Auschwitz e a Dachau. Di chi ogni 16 ottobre si ritrova al Portico d´Ottavia, nel cuore del Ghetto di Roma. Tutti questi nomi sono simboli incancellabili. Ma anche le persone che vollero e permisero questo sono destinate a portare un macigno più grande delle loro spalle di uomini, e sono un simbolo. Non ha avuto torto Simon Wiesenthal a ricercare, per tutta la sua vita, questi simboli. Non ha torto il Tribunale penale internazionale a processare gli uomini che sono simbolo di Trnopolje, dei campi di detenzione di quei Balcani che conosci così bene, che hai raccontato come pochi. La giustizia non deve essere mai accanimento, non deve essere inumana, deve saper guardare alle persone che con il tempo possono non essere più le stesse, deve avere come obiettivo non la segregazione in sé ma il recupero e il reinserimento nella società. Su questo sai come la penso, ne abbiamo parlato tante volte, anche per cose a cui teniamo entrambi, e tu - come posso dire - con qualche motivo in più rispetto a me. Nel caso di Priebke, però, ha ragione Tullia Zevi: siamo di fronte a un uomo che non ha mai dato segni di pentimento o di ravvedimento, né di pietà verso le vittime del nazismo. E poi stiamo parlando di una persona che non è in carcere, che sta trascorrendo la detenzione in una abitazione privata. E´ per questo, caro Adriano, che voglio dirti per prima cosa che trovo odiosi quei manifesti che accostano il tuo nome a questa vicenda, perché la tua libertà, che io spero e sollecito, nasce in primo luogo dalla grandezza del tuo comportamento in questi anni difficili. E poi voglio dirti che è per tutto questo che non ho ritenuto di poter limitarmi a «un´alzata di spalle» quando si è trattato di decidere se concedere o no l´occupazione del suolo pubblico ai sostenitori della grazia per Priebke. Non so se conosci personalmente Piero Terracina, certo avrai letto di lui, e le sue testimonianze di ragazzo rinchiuso ad Auschwitz e tra i pochi ad essere tornato. Bene, ti assicuro che Piero è una persona di profonda umanità e apertura, privo di qualsiasi spinta vendicativa anche verso chi allora fu suo carnefice, portandogli via tutta la famiglia, nessuno escluso. Mi è stato di conforto, allora, il modo in cui ha condiviso le decisioni che abbiamo preso, senza impedire il diritto di esprimere le proprie opinioni ai sostenitori della grazia, ma anche senza concedere - e in questo apprezzo la sensibilità dimostrata dal Prefetto Serra - l´avallo ufficiale delle istituzioni a una manifestazione che avrebbe offeso la comunità ebraica, tutta Roma e per primi i parenti delle vittime. Il Ghetto di Roma, dal quale furono strappate in una notte più di mille persone, è ancora oggi un luogo che trasuda dolore e grida, smarrimento e pianto. Non c´è equilibrio fra 335 morti innocenti e un uomo che è fuggito e non ha mai riconosciuto l´orrore assoluto del proprio comportamento. Almeno la memoria, quell´equilibrio deve salvaguardarlo.

Edoardo SalzanoLettera a Radio Tre, Prima Pagina

Caro Calabresi,

Una signora, ieri, ha detto che il responsabile della strage delle Fosse Ardeatine è chi ha compiuto l'attentato di via Rasella e non si è consegnato quando ha saputo che 335 persone sarebbero state uccise. Nella risposta lei non ha citato un fatto decisivo ai fini di ogni giudizio. Cioè che della strage delle fosse Ardeatine si è data notizia quando il crimine era già stato compiuto. Qualunque storia di quegli anni lo sottolinea, e così lo ricorda chi - come me - in quegli anni era a Roma e ha ancora presente il titolo del Messaggero di allora.

La strage fu conclusa alle ore 19 del 24 marzo, e la notizia dell'avvenuta esecuzione avvenne il giorno successivo, 25 marzo, alle ore 12. Il titolo e il sommario del Messaggero informavano dell'avvenuto attentato, della decisione di fucilare "dieci comunisti badogliani" per ogni soldato tedesco ucciso, e dell'avvenuta esecuzione: "l'ordine è già stato eseguito".

Grazie dell'attenzione

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