Secondo la Fao, dal 1990 al 2017 gli affamati nel mondo sono scesi da un miliardo a 815 milioni. Ma nello stesso periodo in Africa sono cresciuti da 182 a 243 milioni. Eppure, l’Africa è il continente con la maggior concentrazione di terre coltivabili. Di solito gli analisti attribuiscono la fame in Africa alla crescita della popolazione, alle calamità naturali, ai conflitti armati. Ma dimenticano la responsabilità della politica internazionale che ha trasformato l’Africa in un continente dipendente dalle importazioni di cibo, e pertanto sottomesso alle bizzarrie del mercato internazionale che nell’ultimo decennio ha registrato una tendenza al rialzo nel prezzo dei cereali.
Negli anni 80 del Novecento, la crisi dei debiti sovrani forzò molti Paesi africani ad adottare i programmi di aggiustamento strutturale imposti dalle istituzioni di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale) che in ambito agricolo chiedevano di privilegiare la produzione di caffè, cacao, olio di palma e altri prodotti per l’esportazione, piuttosto che la produzione di alimenti a uso interno. La tesi del Fondo monetario era che il cibo importato sarebbe costato meno di quello prodotto internamente, per cui i governi dovevano smettere di investire in agricoltura e soprattutto di assistere i contadini.
Detto fatto le importazioni alimentari crebbero del 3,4% all’anno, in gran parte cereali. In quegli stessi anni, in Africa gli investimenti pubblici in agricoltura erano paragonabili a quelli dell’America Latina, ma poi c’è stata la divaricazione: mentre in America Latina, fra il 1980 e il 2007, sono cresciuti due volte e mezzo, in Africa sono rimasti pressoché piatti. Quanto all’Asia sono stati da tre a otto volte più alti che in Africa.
Il che ha reso l’agricoltura africana non solo più debole, ma anche più vulnerabile difronte alle sfide dei cambiamenti climatici che si fanno sempre più minacciosi. In altre parole l’Africa è stata ridotta al pari di Haiti dove la produzione agricola è stata letteralmente distrutta dal cibo importato dall’Europa e Stati Uniti che, quando serve, possono truccare i prezzi grazie ai contributi alle esportazioni messi a disposizione dai rispettivi governi.
Il che ha reso l’agricoltura africana non solo più debole, ma anche più vulnerabile difronte alle sfide dei cambiamenti climatici che si fanno sempre più minacciosi. In altre parole l’Africa è stata ridotta al pari di Haiti dove la produzione agricola è stata letteralmente distrutta dal cibo importato dall’Europa e Stati Uniti che, quando serve, possono truccare i prezzi grazie ai contributi alle esportazioni messi a disposizione dai rispettivi governi.
Lo affermò anche Bill Clinton, già presidente degli Stati Uniti, dopo il terremoto del 2010. I sostenitori delle politiche di aggiustamento strutturale hanno sempre buttato acqua sul fuoco sostenendo che i contraccolpi provocati dalle maggiori importazioni e dal taglio degli investimenti pubblici sarebbero stati compensati dagli investimenti privati. Ma il neoliberismo, che veniva presentato come il salvatore dell’umanità, in realtà si è rivelato un incubo con effetti sociali drammatici. Nonostante il boom delle estrazioni minerarie avvenuto fra il 2002 e il 2014, metà della popolazione africana vive ancora in povertà, il 35% addirittura in condizione di povertà assoluta, ossia incapace di soddisfare perfino i bisogni fondamentali.
Il Rapporto della Banca Mondiale, Poverty in a rising Africa, mostra che fra il 1990 e il 2012 il numero di africani in povertà estrema è aumentato di 100 milioni fino a raggiungere la cifra odierna di 389 milioni. Per ammissione generale i poveri del mondo saranno sempre più concentrati in Africa. Ciò nonostante vasti tratti di terra arabile rimangano inutilizzati a causa dello scarso impegno pubblico in agricoltura. Ma la soluzione offerta dalle istituzioni finanziarie internazionali è l’apertura agli investimenti da parte delle multinazionali dell’agroindustria.
La Banca Mondiale segnala un interesse crescente per le terre agricole africane da parte delle imprese straniere, soprattutto dopo l’impennata dei prezzi dei cereali avvenuta fra il 2007 e il 2008. Nel 2009 in tutto il mondo sono stati firmati accordi per la concessione di 56 milioni di ettari dei terra, un’enormità rispetto agli anni precedenti quando le richieste difficilmente superavano i 4 milioni all’anno. Il 70% dei contratti firmati riguarda l’Africa dove il latifondo straniero cresce ovunque. Valga come esempio il caso Feronia, un’impresa con base in Canada, ma posseduta da istituzioni finanziarie afferenti a vari governi europei, che nella Repubblica democratica del Congo possiede oltre 100mila ettari di piantagioni di palma da olio. O il caso Agro EcoEnergy, un’impresa svedese che in Tanzania possiede 20mila ettari per la coltivazione di canna da zucchero destinata alla produzione di bioetanolo.
I difensori del latifondo sostengono che gli investimenti stranieri hanno impatti locali positivi come la creazione di posti di lavoro e la costruzione di infrastrutture.Ma la riduzione di terre a disposizione delle popolazioni locali provoca ovunque conflitti e disuguaglianze crescenti. Difficilmente le comunità locali sono consultate prima di procedere alla concessione delle terre, mentre succede spesso che siano espropriate senza indennizzo e deportate con la forza altrove. Etiopia docet. Di sicuro non sarà il land grabbing a salvare l’Africa dalla povertà e dalla fame, ma la direzione indicata dal lavoro svolto da tante Ong che cercano di accrescere la produttività dei piccoli contadini attraverso un paziente lavoro di educazione e di promozione sociale. Del resto i poveri lo sanno: i soli su cui possono contare sono loro stessi, per cui sapere, solidarietà e vincoli comunitari sono le strade per uscire tutti insieme dalla miseria.