Vorrei scrivere un articolo sugli incendi a gennaio, in mezzo alla neve, quando è il momento per pensarci seriamente ed attrezzarsi. Come fa l’industria della moda, che presenta i nuovi abiti una stagione prima, come succede in generale in un’ impresa di medie dimensioni che programma le innovazioni. E invece se ne parla d’estate, come è successo tante volte in passato: nel 2001, nel 2003, la peggiore stagione per gli incendi in Europa, nel 2007 e nel 2010.
Ogni estate gli incendi, un fenomeno sociale e non naturale (non esiste l’autocombustione se non in circostanze eccezionali), colpisce il nostro paese distruggendo foreste, macchia mediterranea e terreni coltivati, ma l’opinione pubblica se ne accorge solo quando viene superata una certa soglia e scatta la parola magica: emergenza.
Vivere nell’emergenza significa inseguire gli eventi, farsi coinvolgere e trasportare come una canna al vento da ciò che accade. Il termine “emergenza” evoca situazioni eccezionali, abnormi, destinate a suscitare paura e preoccupazione generale.
E serve, in primo luogo, a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, a bloccare o a rallentare quel processo di obsolescenza dell’informazione, a riportare verso l’alto la curva di Vernon applicata alla merce “informazione”.
E così si è parlato di “emergenza” per: il maltempo, il terrorismo, la disoccupazione giovanile, l’inflazione (anni ’70), la deflazione (in questo decennio), la radioattività, i terremoti, la siccità, le alluvioni, l’immigrazione (over all), e chi più ne ha più ne metta.
Emergenza e normalità si scambiano spesso le parti: ciò che sarebbe normale in quanto conseguenza di un certo modello di sviluppo diventa eccezionale, e viceversa ciò che è eccezionalmente grave e insostenibile (come la corsa agli armamenti o il salvataggio delle banche mentre una parte rilevante della popolazione vive sotto la soglia di povertà) diviene del tutto scontato e regolare. E’ normale che siano morti 6 milioni di congolesi per guerre intestine e fame nell’ultimo decennio, o centinaia di migliaia di yemeniti vittime di una guerra devastante quanto ignorata dai media, ed invece è «emergenza sempre più urlata ogni sbarco di migranti sulle nostre coste.
Scriveva profeticamente un noto politologo nordamericano : «L’esistenza di emergenze da fronteggiare è per la classe politica nel suo insieme condizione della sua stessa esistenza : l’unico mezzo per conquistare spazio e legittimità e contrastare il declino della partecipazione politica, la crisi delle ideologie, la tendenziale omogenizzazione dei partiti, la concorrenza rappresentata dalla molteplicità degli stimoli e delle informazioni» (A. Wolfe, 1981).
E così accade che ogni volta, all’arrivo di un’estate più calda del solito, all’estendersi delle terre bruciate dal fuoco, per qualche giorno tutti si occupano degli incendi per poi voltare pagina e dimenticarsene fino alla prossima, bollente estate.
Personalmente questo fatto mi è ancora più insopportabile per avere sperimentato con successo, nel Parco nazionale dell’Aspromonte, un metodo di lotta agli incendi che costa poco ed è efficace. In passato ne parlarono tutti i telegiornali nazionali ed i principali organi di stampa, ma senza che servisse a modificare l’approccio prevalente. Si tratta di un principio semplice: ricreare quel rapporto tra popolazione e territorio, che c’era in passato prima dello spopolamento delle campagne e montagne, attraverso i «contratti di responsabilità territoriale» che puntano ad uno spegnimento immediato dei fuochi. Recita un proverbio francese più o meno così : per spegnere un incendio dopo dieci secondi basta un bicchiere d’acqua, dopo un minuto ci vuole un secchio d‘acqua, dopo un’ora bisogna chiamare i pompieri.
Contratti di responsabilità territoriale che avevamo esteso anche alla raccolta rifiuti nei boschi, ma che dal 2005, quando il ministro Matteoli mandò un commissario, furono cancellati con la motivazione esilarante: di incendi e rifiuti se ne deve occupare la Regione Calabria. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le foreste aspromontane sono ridotte a pattumiera ed il controllo degli incendi con il metodo della responsabilità territoriale è ripreso solo negli ultimi anni, ma con un budget fortemente ridotto.
Dopo la tragedia del 2003 che causò oltre 25000 morti in Francia per l’anomala ondata di calore e provocò incendi spaventosi dal Portogallo fino all’Italia e Grecia, fui invitato a Bruxelles da una Commissione istituita ad hoc, che espresse grande interesse per il metodo Aspromonte, me lo rinnovò nel 2005 e poi non ne seppi più niente.
Non si tratta di un metodo perfetto, ma perfettibile, che nel tempo ha aggiunto al coinvolgimento delle associazioni ambientaliste e di protezione civile quello di un rapporto di responsabilità con contadini e pastori nella difesa territoriale.
E’ una sfida che ci riguarda tutti ma che richiede una uscita/liberazione dalla catena delle emergenze. Abbiamo bisogno di programmare la difesa territoriale in tutti i campi, tenendo conto che registreremo sempre più “eventi estremi” legati al mutamento climatico in corso con cui fare i conti. E’ un’altra politica unitamente ad un’altra informazione , che non stia solo sul pezzo, quella di cui abbiamo estrema necessità.