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Norma Rangeri
Poteri di carta
8 Ottobre 2010
Articoli del 2010
Non sono tutti uguali quelli che sono colpiti o minacciati dai killer armati di “dossier”. Il manifesto, 8 ottobre 2010

Quando il vicedirettore del Giornale, parlando con l'addetto stampa della presidente Emma Marcegaglia, dice «dobbiamo trovare un accordo perché sennò....», dà l'impressione di voler contrattare la pubblicazione di informazioni (c'è chi le chiama dossier) in cambio di accordi tra il suo giornale e la presidente di Confindustria. Che il giorno prima aveva attaccato il mero proprietario della testata e criticato la campagna del quotidiano di famiglia contro Fini e la casa di Montecarlo.

Quando il giornalista, proseguendo la conversazione, aggiunge «spostati i segugi da Montecarlo a Mantova, adesso ci divertiamo, per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia come pochi al mondo», non abbiamo la sensazione di essere di fronte al Bob Woodward italiano. Quando poi la cronaca rivela che i magistrati di Napoli arrivano alle intercettazioni dei giornalisti del quotidiano milanese mentre indagano su una vicenda di rifiuti tossici di grandi gruppi industriali (tra i quali l'impresa della famiglia Marcegaglia) smaltiti in discariche comuni, sembra di entrare in una scena del film Gomorra.

Di questi «venti giorni» di fuoco del Giornale comunque non si è vista traccia. E' bastata qualche telefonata, su sollecitazione della "vittima", tra i direttori del quotidiano e Confalonieri per sistemare le cose e non disturbare più con certi scherzi la presidente di Confindustria. Tra gentiluomini e gentildonne si usa così.

Il mondo dell'informazione italiana, con le testate più importanti legate a gruppi industriali, non è mai stato un belvedere. L'autonomia dei giornali più che una favola è una vecchia barzelletta. Dietro le quinte del quarto potere si apparecchiano leccornie o piatti avvelenati a seconda della necessità del momento. E questo è uno di quelli in cui la lotta politica avviene a mezzo stampa, con la carta usata come manganello.

Noi non siamo «uomini di mondo» come reciprocamente si autodefiniscono i giornalisti intercettati quando parlano dei rispettivi padroni. Ma questo giornalismo fatto di "inchieste" con il timer incorporato, con la penna che lavora quando l'amico o l'alleato sterza e comincia ad attaccare Berlusconi e il suo governo, non profuma di buono. Ne ci convince la difesa («erano solo frasi scherzose»), il nostro senso dell'umorismo finisce molto prima.

Sarà che siamo di quelli che intendono il giornalismo, anche il foglio più di parte, come un gioco corretto, una piazza dove si discute, di fatti e opinioni, senza suggeritori. E', bisogna saperlo, un'informazione fuori mercato, con un prezzo alto da pagare (il taglio dei fondi dell'editoria lo dimostra). Non avendo pezzi da novanta a coprirci le spalle, né un partito (come del resto altre decine di testate no profit e in cooperativa), è facile metterci il bavaglio definitivo. Combattiamo da soli con i nostri lettori, e nessun Confalonieri a cui telefonare. Sono piaceri che si pagano.

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