Era il 6 novembre 2010 quando il crollo della Schola Armaturarum, la casa dei gladiatori, divenne il caso simbolo, a livello mondiale, della condizione del nostro patrimonio culturale e dell’incapacità del Ministero dei Beni Culturali di tutelare persino uno dei siti archeologici più importanti al mondo. Qualche mese dopo (dicembre ‘10– gennaio ‘11), l’Unesco - Pompei, dal 1997, è nella World Heritage List - inviò un gruppo di ispettori Icomos per monitorare la situazione. I tre ispettori, studiosi di riconosciuta competenza, stilarono un report inviato, oltre che all’Unesco, al Mibac, dove fu prontamente “archiviato”, senza riscontri.
Nel rapporto, con grande diplomazia, si evitarono ultimatum ed anzi si riconobbero le difficoltà insite nella gestione di un sito così ampio (66 ettari di cui 44 scavati) e complesso. Nello stesso tempo si evidenziarono le criticità sulle quali agire, riassunte in 15 raccomandazioni finali di esemplare chiarezza: la mancanza di tecnici specializzati (non solo archeologi, ma restauratori , manutentori, ingegneri), la necessità urgente di operazioni per l’eliminazione del rischio idrogeologico (tutte le volte che piove, c’è un crollo), la fragilità del contesto, ovvero sia della zona extra moenia, attorno al sito. Il report sottolineava infatti come Pompei fosse stata inserita nella lista Unesco dei siti dell’umanità non solo per l’importanza in termini archeologici, ma per il rapporto, allora ancora in gran parte intatto, fra la città e il panorama circostante, a partire dal Vesuvio. Questa zona che circonda gli scavi è invece stata terreno di abusi di ogni tipo che l’hanno ridotta a livello di un suk informe di costruzioni e allestimenti più o meno provvisori e più o meno legali.
Da allora, mentre i crolli si sono succeduti, sono passati due anni abbondanti: sono cambiati tre ministri dei beni culturali e due governi, l’ex commissario Marcello Fiori è stato incriminato per i restauri del Teatro Grande, sono arrivati i soldi della UE, molte decine di milioni (anche se le cifre del Mibac sono un po’ ballerine), e, ai primi di aprile del 2012, è stato avviato, fra squilli di trombe e rulli di tamburo, il Grande Progetto Pompei (maiuscole incluse). Nelle intenzioni dei 4 ministri 4 presenti all’epoca, doveva trattarsi del definitivo piano di rilancio del sito: non solo messa in sicurezza, quindi, ma “alto impatto di sviluppo” per l’intera area.
Dopo molti stop and go, i primi cantieri (un paio) del Grande Progetto, relativi al restauro di due domus, si sono avviati, alla fine, nel febbraio di quest’anno, 2013, in seguito a gare aggiudicate con ribassi del 57% e il commissariamento, per lo meno amministrativo, della Soprintendenza Archeologica da parte della società Invitalia.
Come preannunciato in quel primo report del 2011, intanto, gli ispettori Unesco sono tornati a verificare la situazione nel gennaio di quest’anno. E si sono resi conto che pochissimo era stato fatto rispetto a quelle recommendations, sia sul piano del personale specializzato che sulle attività di manutenzione ordinaria: decisamente peggiorato lo stato di conservazione complessivo delle strutture e ampliato il rischio di danni anche gravi con pesante impatto sulla fruizione (73% del sito inagibile per il pubblico). E hanno pure dovuto constatare che le costruzioni incongrue ed abusive erano aumentate. Eleganti, ma radicali, infine, le critiche al Grande Progetto in termini di tempistica ed efficacia.
La gravità del rapporto Unesco non sta solo in ciò che segnala sull’attuale situazione, ma nel fatto che in oltre due anni, i responsabili del Ministero (o dei ministeri) abbiano colpevolmente trascurato le indicazioni di un organismo scientifico di altissimo livello e super partes (e animato, almeno finora, da grande spirito di collaborazione) per inseguire i Grandi Progetti, voluti in particolare dall’ex ministro Barca, e abbiano, con questo, buttato a mare tempo e competenze preziosissime.
La polemica di queste ore comprende anche le profferte dell’amministratore delegato di Impregilo che, a suo dire, avrebbe voluto donare 20 milioni al sito senza riuscirci. Al di là delle doverose verifiche che vanno effettuate su generosità che prevedono spesso lauti ritorni - almeno in termini di immagine- da parte del “mecenate” di turno, come ci ha insegnato il caso Colosseo-Della Valle, il problema di Pompei non sta nella mancanza di risorse economiche: i soldi ci sono, anche se naturalmente altri fondi sarebbero benvenuti.
Quello che manca è invece la capacità organizzativa e la consapevolezza che il recupero di Pompei non può che essere il frutto di un insieme di molteplici operazioni, singolarmente modeste – così come indicavano gli ispettori UNESCO fin dal primo rapporto – ma inquadrate in una stategia complessiva e quella sì, grandiosa, coerente e di lungo respiro.
A Pompei, come per l’Italia.
L'articolo è pubblicato in contemporanea su L'Unità on-line, "Nessun dorma"