Prima di iniziare la trattazione dei problemi urbanistici sotto il profilo legale è forse opportuno dare uno sguardo, per così dire, panoramico alla situazione urbanistica italiana, al fine di esaminare se e fino a qual punto lo stato attuale della legislazione abbia influito o possa influire sulla progettazione e sull'esecuzione di buoni piani regolatori.
Quando, nel settembre 1929, fu inaugurata in Roma la I Mostra Nazionale Urbanistica, molti delegati stranieri, convenuti in Italia per prender parte al XII Congresso Internazionale dell'abitazione e dei piani regolatori, ebbero espressioni di plauso e di meraviglia nel constatare, attraverso una documentazione di inoppugnabile evidenza, che l'Italia, da molti giudicata un paese ancora agli albori della scienza urbanistica, aveva invece compiuto e stava compiendo un lavoro notevole per la preparazione di piani di trasformazione e di ampliamento delle proprie città rispondenti alle moderne esigenze dell'igiene, del traffico e dell'estetica.
Quella mostra nazionale ebbe, quindi, il merito di svolgere un'utile funzione di propaganda presso scienziati e uomini politici stranieri, fornendo una prova del grande impulso dato dal Fascismo al rinnovamento del paese anche in questo settore importantissimo riflettente il miglioramento delle condizioni di vita materiale delle popolazioni.
Ma un altro vantaggio assai notevole essa recò, e fu quello di richiamare l'attenzione di molte amministrazioni municipali, rimaste fino ad allora pressoché inerti, sulla necessità di risolvere i problemi di sistemazione e di ampliamento dell'aggregato edilizio, come mezzo per eliminare molteplici inconvenienti più o meno gravi nello svolgimento della vita cittadina, e per assicurare la conservazione e il miglioramento del patrimonio di bellezze artistiche e panoramiche, che la maggior parte dei nostri comuni posseggono in misura doviziosa.
Infatti, mentre fino al 1929 solo poche grandi città avevano provveduto a preparare e far approvare piani regolatori edilizi e di ampliamento, da quell’anno in poi si moltiplicarono i progetti degli uffici municipali e numerosi furono i concorsi banditi per fissare i criteri più idonei da seguire nella loro compilazione, Ne il movimento di rinnovamento urbanistico si fermò alle città maggiori, che anche amministrazioni di centri appartati di provincie vollero fissare in piani più o meno bene studiati nuovi criteri di assetto dell'abitato.
Dall'Annuario delle Città Italiane, importante pubblicazione edita in questi ultimi mesi dall'Istituto Nazionale d'Urbanistica, risulta che dei 93 capoluoghi di provincia, 32 hanno oggi un piano regolatore approvato e 4710 hanno in compilazione; di guisa che solo 13 non hanno ancora affrontato la soluzione integrale dei problemi urbanistici.
Non è mia intenzione affermare che siffatti risultati debbano unicamente ascriversi alla funzione di richiamo e di propaganda esercitata dalla Mostra del 1929. A queste importanti realizzazioni contribuì in grande misura la parola appassionata di vecchi e di giovani urbanisti, di scienziati e di neofiti, i quali non cessarono di far presenti in tutti i modi, dalla cattedra e dalle colonne dei quotidiani, dalle Commissioni edilizie e dalle adunate di tecnici, i dannosi effetti di un'attività edilizia disordinata. Vi contribuì una conoscenza più approfondita delle esigenze demografiche, economiche, culturali e sociali in genere dei nostri aggregati urbani da parte di amministratori e di organi centrali e locali di controllo. Vi contribuirono le polemiche fra studiosi di problemi municipali, dalle quali quasi sempre emerse chiaro che alle esigenze predette non corrispondeva la struttura degli aggregati edilizi o non vi avrebbe più corrisposto in avvenire se non si fosse pensato a indirizzarne in modo idoneo la trasformazione e l'accrescimento.
Certo è che molte amministrazioni municipali riconobbero in questi ultimi anni la necessità di provvedere ad un conveniente assetto dell'abitato e affrontarono i problemi edilizi con una sollecitudine e con una buona volontà che talvolta disorientarono coloro stessi che avevano protestato contro l'inintelligente neghittosità di Consigli e di Giunte comunali, rimaste per lungo tempo impassibili di fronte all'incalzare dei bisogni relativi allo sviluppo cittadino.
Vi sono state esagerazioni? Alcuni ne dubitano. Altri lo affermano in modo reciso, dichiarando che la vanità personale di amministratori, desiderosi di legare il loro nome ad opere colossali, più che il reale bisogno di trasformazioni edilizie ha dato esca alla formazione di piani implicanti vaste demolizioni di edifici dove si sarebbe potuto provvedere con semplici modificazioni di dettaglio, ha spinto all'esecuzione di opere giustificate con necessità di traffico, d'igiene, di decoro, talvolta assolutamente inesistenti, spesso artatamente amplificate, ha condotto alla previsione di nuovi estesi quartieri di abitazione, con conseguenti vincoli alle proprietà private per la formazione di reti stradali, laddove il coefficiente d'incremento della popolazione avrebbe potuto render necessaria la costruzione di poche case in un periodo abbastanza lungo, ha spinto infine alla creazione di zone verdi e di spazi liberi dove questi risultavano superflui o comunque non indispensabili, impedendo un conveniente sfruttamento edilizio di vasti appezzamenti di terreni situati in ottima posizione.
Con il corredo di ben colorite relazioni anche sulla disoccupazione locale, si è detto, sono stati imbastiti grandiosi piani di sventramento, mastodontici progetti di bonifica igienica, sontuose trasformazioni estetiche, che, mentre hanno gravato molti bilanci comunali di pesi insostenibili per mutui o per anticipazioni onerose, non hanno risoluto definitivamente i problemi messi allo studio, giungendo quindi all'unico vero risultato di peggiorare la situazione dei contribuenti e di infliggere alla proprietà privata inutili limitazioni.
Il quadro è alquanto catastrofico! Non si può tuttavia negare che talvolta si sia andati troppo innanzi e che non solo sia stata Eseguita qualche opera non del tutto necessaria, ma che numerosi vincoli siano stati imposti sui beni privati senza la certezza di poter dar corso alle sistemazioni relative. Inconveniente questo assai grave, perché, se è fuori dubbio che l'interesse privato debba cedere di fronte a quello della collettività, è da considerare iniquo, e perciò inammissibile, che il cittadino debba soffrire una diminuzione del suo patrimonio senza che ne derivi un corrispondente vantaggio per la collettività. Di vera diminuzione patrimoniale deve, infatti, parlarsi quando un immobile, gravato della « servitus non aedificandi», perché destinato a passare nel demanio comunale con l'attuazione del piano regolatore, viene di fatto ad essere posto fuori commercio e subisce quindi una svalutazione più o meno grave, quasi sempre non compensata da altro beneficio economico per il proprietario.
Ne ad eliminare tali inconvenienti ha giovato il sistema del pubblico concorso per la preparazione del piano regolatore, sistema largamente usato in questi ultimi tempi, che, si riteneva, avrebbe assicurato i migliori risultati, chiamando a collaborare ad un compito così importante le migliori energie. Di fatto molto spesso le Commissioni giudicatrici si son trovate di fronte a proposte geniali e a piani profondamente studiati, ma altrettanto gravosi per le finanze comunali e non meno criticati dai rappresentanti degl'interessi della proprietà privata rispetto a quelli preparati direttamente dagli uffici municipali.
Quali le cause di una situazione tanto strana? Forse l'eccessivo ardimento di tecnici portati a seguire principi teorici senza la preoccupazione delle possibilità pratiche di realizzazione? O forse il carattere incompleto e anacronistico delle disposizioni che regolano in Italia la formazione e l'esecuzione dei piani regolatori?
Noi vorremmo poter scartare la seconda ipotesi: invece onestamente dobbiamo riconoscere che proprio a questa causa sono da attribuirsi in gran parte gli eccessi deplorati nel campo urbanistico.
Purtroppo, mentre per la parte tecnica sono stati compiuti progressi notevolissimi e i nostri architetti ed ingegneri si sono messi alla pari dei loro colleghi stranieri, se non li hanno addirittura sopravanzati, nella formulazione di progetti in tutto rispondenti alle esigenze dei centri da sistemare, le norme che regolano la materia sono rimaste ancora quelle di settanta anni or sono, contenute negli ultimi nove articoli della legge 24 giugno 1865 sull'espropriazione per pubblica utilità, norme emanate quando in tutti i campi, estetico, igienico, sociale, le esigenze erano infinitamente minori di numero e profondamente diverse nella sostanza.
Che le predette disposizioni siano ormai sorpassate è dimostrato da un cumulo di considerazioni. Ne accenneremo alcune rapidamente.
Anzitutto la legge del 1865 vuole il piano regolatore limitato a quelle parti dell'aggregato edilizio nelle quali si notino inconvenienti igienici o di traffico. Questa limitazione era concepibile moltissimi anni fa, quando piccole modificazioni nell'allineamento dei fabbricati e l'apertura di una via o l'allargamento di un'altra bastavano a risolvere problemi gravi di assetto edilizio. Oggi le cose sono totalmente cambiate, e non è più possibile predisporre provvedimenti edilizi in una parte dell'abitato senza considerare le conseguenze che ne deriveranno in altre parti anche lontane. Infatti, con 10 sviluppo dei mezzi di trasporto a trazione meccanica e con l'aumentata rapidità della circolazione, può una trasformazione edilizia avere ripercussioni in zone assai distanti dando luogo a rarefazione o congestionamento della circolazione in misura più che notevole.
La legge del 1865 esige che nella formulazione del piano regolatore si tenga conto dei bisogni attuali: principio assolutamente inammissibile, poiché, dato l'alto costo delle trasformazioni edilizie, si deve evitare la necessità di attuarne altre nel futuro, e quindi si devono considerare nella preparazione del piano anche bisogni che prevedibilmente si manifeste- ranno a scadenza più o meno lontana.
Nell'ambito del diritto urbanistico vigente è possibile riservare, attraverso il piano regolatore, solo le aree necessarie per costruzione o trasformazione di strade. Ora, se più di mezzo secolo fa, in un regime di vita che comincia ad apparirci patriarcale, nulla o quasi era la necessità di grandi impianti per servizi pubblici, all'epoca attuale, in cui Stato e Comuni provvedono direttamente alla soddisfazione di numerosi bisogni della collettività, i servizi pubblici si sono moltiplicati, ed è assolutamente inconcepibile che il piano regolato re si disinteressi totalmente dei problemi relativi alloro impianto, data l'influenza che essi esercitano sulle condizioni di vita della popolazione.
La legge del 1865, infine, non contiene disposizioni intese ad attuare una disciplina rigorosa delle costruzioni. Ora l'attività edilizia del dopo guerra ci ha dimostrato che cosa significhi lasciar sorgere interi quartieri senza un controllo accurato da parte delle autorità locali. Nel corso di pochi mesi vasti aggruppamenti di abitazioni sono sorti alla periferia dei maggiori centri urbani, senza collegamento con l'abitato esistente, disposti in modo da rendere quanto mai difficile l'estensione dei pubblici servizi.
Donde un triste spettacolo di miseria in w ne che apparivano prima veramente suggestive, sfoghi capricciosi di mania edilizia in località che per evidenti ragioni estetiche avrebbero dovuto rimanere molti anni ancora libere da costruzioni, imbarazzi gravi di amministrazioni, impossibilitate a curare il materiale benessere di molte centinaia di famiglie, dimoranti in località prive di ogni servizio pubblico, mentre altre zone, già da lungo tempo sistemate, erano disertate dalle nuove costruzioni!
Non può quindi recare meraviglia se, di fronte a siffatto stato di cose, sono stati invocati provvedimenti di eccezione, capaci di ovviare agli inconvenienti più gravi; ne può impressionare il fatto che, una volta riconosciuta la necessità di derogare al!a legge generale, le amministrazioni locali si siano spinte a richiedere posizione e privilegi speciali, e abbastanza facilmente le autorità centrali si siano indotte ad eccedere a tali domanda, anche se eccessive.
Gli eccessi sono derivati in questo caso dalla scheletrica semplicità della legge urbanistica, la quale non offre mezzi sufficienti per impedire mali, che possono in taluni casi raggiungere proporzioni preoccupanti ed avere conseguenze dolorose dal punto di vista della sanità fisica e morale del popolo, e assai scarsamente si presta a realizzare il canone fondamentale della scienza urbanistica, che è quello di assicurare la sistemazione degli aggregati edilizi in modo che la vita dei cittadini vi si possa svolgere nelle migliori condizioni possibili.
Ma v'è di più: in molti casi i rimedi che la legge pone a disposizione per eliminare deficienze edilizie, specialmente nei riguardi dell'igiene, applicati integralmente, risultano tali da favorire soluzioni criticabili urbanisticamente, perché assai costose per le amministrazioni comunali, rovinose per l'estetica cittadina, gravemente lesive degl'interessi della proprietà edilizia. Poche argomentazioni sono sufficienti a chiarire il fondamento di questa che può sembrare, e non è, affatto paradossale.
Un metodo generalmente riconosciuto adatto a realizzare il risanamento di quartieri antigienici, salvando le peculiari caratteristiche dei nostri aggregati urbani"e tuttavia assicurando l'eliminazione di quello stato di miseria edilizia, che solo pochi visionari o qualche turista in cerca di sensazioni di dubbio valore estetico vorrebbero mantenuto a tutela del cosiddetto «colore locale», è quello del diradamento, le cui particolarità furono più di venti anni or sono chiaramente indicate dall'Accademico d'Italia, professore Giovannoni. È possibile, con tale sistema, portare aria e luce in mezzo ai tuguri e assicurare un singolare miglioramento del patrimonio artistico-architettonico di molte nostre città, senza attuare nessuno di questi disgraziati «sventramenti» che hanno rovinato molti ambienti deliziosi, provvedimenti altrettanto brutti nel nome quanto deprecabili nelle loro conseguenze. Basta adoperare sapientemente l'arma della demolizione, procedendo ad un oculato abbattimento di costruzioni addossate, in tempi di oscura decadenza, agli edifici maggiori, basta creare piccoli slarghi là dove fabbricati di minore importanza si prestano a parziali e poco costose trasformazioni, basta tendere al miglioramento delle condizioni dell'igiene e della circolazione non preoccupandosi di attuare rettifili insignificanti e monotoni.
Molti compilatori di piani non hanno forse tenuto presente questo importante principio urbanistico nello studiare il risanamento di vecchi quartieri, ma dobbiamo pur riconoscere che, anche se lo avessero fatto, sarebbe poi loro mancata la possibilità di giungere alla formulazione di un piano eseguibile, perché la legge generale vigente non fornisce i mezzi per attuare soluzioni del genere di quelle che formano l'essenza del metodo del «diradamento edilizio».
Una prova convincente si ha in quello che è accaduto a Roma quando si è voluto affrontare in pieno la questione dell'assetto del quartiere del Rinascimento. Lo studio del delicato problema, iniziato fin da epoca anteriore alla guerra, completato e tradotto in un piano di massima da una Commissione nominata nel 1923, non è stato mai potuto trasformare in provvedimento definitivo perché si è riconosciuto che le norme in vigore non offrivano allora, come non offrono oggi, la possibilità di svolgere quell'azione complessa che si richiede per l'esecuzione di una sistemazione fondata su trasformazioni di dettaglio non precisabili attraverso un comune piano regolatore.
Nella stessa condizione si sono trovate molte altre amministrazioni comunali, alle quali si presentavano problemi analoghi da risolvere: esse hanno quindi creduto opportuno seguire la via più semplice, anzi l'unica che la legge loro offriva, quella del risanamento edilizio attraverso demolizioni su vasta scala, quella della bonifica dell'abitato radendo al suolo interi quartieri o aprendo grandi squarci nelle costruzioni, a costo di cambiare totalmente l'aspetto di determinate zone e sacrificare definitivamente quanto di bello esse offrivano.
A questo proposito, peraltro, s'insiste nell'affermare che troppo spesso si è ricorso agli sventramenti, anche quando il bisogno di risanamento igienico non era molto sentito; ma in ciò è da riconoscere un' altra prova dell'imperfezione della legge 25 giugno 1865, per la parte riflettente la formazione e l'approvazione dei piani regolatori. Essa esaurisce, si può dire, tutta la materia in due brevi disposizioni: quella dell'art. 86, nel quale è detto che «i Comuni con popolazione accentrata di più di 10.000 abitanti possono per causa di pubblico vantaggio, determinato da attuale bisogno di provvedere alla salubrità e alle necessarie comunicazioni, fare un piano regolatore, nel quale siano tracciate le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell'abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifici, per raggiungere l'intento»; e quella dell'art. 93, in cui è stabilito che «tutti i Comuni, pei quali sia dimostrata l'attuale necessità di estendere l'abitato, potranno adottare un piano regolatore di ampliamento, in cui siano tracciate le norme da osservarsi nella edificazione di nuovi edifici, a fine di provvedere alla salubrità dell'abitato ed alla più sicura, comoda e decorosa sua disposizione».
Ora è la tacitiana laconicità della legge la causa principale della indecisione che vige nella disciplina dell'assetto degli aggregati edilizi. Pur senza seguire il metodo di una regolamentazione dettagliatissima adottato in altri paesi, se la nostra legge o il regolamento generale per la sua applicazione {che la legge prevedeva ma che non è stato mai emanato) fornissero un criterio qualsiasi di orientamento, o se, quel che sarebbe preferibile, fosse affidato ad un organo autorevole e urbanisticamente attrezzato il compito di dettare norme per la formazione dei piani regolatori e per indirizzare l'attività urbanistica con criteri idonei, forse nei concorsi non si avrebbero proposte che le commissioni giudicatrici debbono, sia pure con molto riguardo, deplorare piuttosto che segnalare come meritevoli di essere prese a fondamento per la formazione del piano definitivo, forse non si avrebbero progetti di uffici municipali che, una volta compilati, pubblicati e discussi, assai difficilmente possono essere respinti, anche se sostanzialmente errati ed anche se gli organi chiamati a dar parere sul loro contenuto intendono assumere una posizione di netta intransigenza.
Nelle condizioni attuali, pertanto, vi è chi si augura che molti Comuni si astengano dal formulare un piano regolatore, affermando che è meno dannosa un'attività edilizia non controllata affatto che uno sviluppo delle costruzioni disciplinato da un piano sbagliato.
A questo augurio noi non possiamo certo associarci. Occorre evitare gli inconvenienti, ma non si può rinunciare alla formazione dei piani, poiché, se è impossibile erigere un fabbricato di grande mole senza la guida di un progetto che tenga conto dell'uso cui l'edificio è destinato, dell'ambiente in cui deve sorgere e dei materiali con i quali deve essere costruito, è assurdo ritenere che un'opera molto più complessa, quale è la costruzione o la trasformazione di un nucleo edilizio di una certa importanza, dalla cui disposizione più o meno indovinata dipenderà la migliore soddisfazione di innumerevoli esigenze della collettività, possa essere compiuta senza un piano prestabilito. Quando per un complesso disgraziato di circostanze questo si verifichi, l'amministrazione municipale finirà, prima o poi, per trovarsi in questa alternativa: o tollerare uno stato di cose pregiudizievole dal punto di vista igienico ed estetico, e sarà un danno grave per la collettività, o adottare provvedimenti edilizi, che nella maggior parte dei casi porteranno a demolizioni, cioè a distruzioni di ricchezze, e anche questo rappresenterà un danno grave per la collettività, poiché su essa in definitiva si riverseranno le conseguenze economiche di tali distruzioni.
Del resto, direttive precise in questo campo sono indispensabili anche perché è attraverso un razionale sviluppo dell'abitato che la spesa per l'estensione dei servizi pubblici può essere contenuta in limiti convenienti. Questo lato del problema acquista, oggi che le finanze dei Comuni devono essere liberate da ogni inutile peso, importanza grandissima. Nell'impossibilità di gravare ulteriormente il contribuente, le amministrazioni municipali debbono essere messe in condizione di impiegare bene i fondi stanziati per la costruzione di nuove strade, per l'impianto di linee tranviarie, per l'estensione di canalizzazioni elettriche, idriche, telefoniche e soprattutto di ottenere che abbiano uno sfruttamento adeguato quelli erogati per siffatti impianti nell'aggregato edilizio esistente.
Quali sono, allora, i rimedi indispensabili per ovviare ai temuti eccessi nel campo urbanistico e per assicurare una disciplina dell'attività edilizia in tutto rispondente alle necessità della vita moderna?
Secondo il nostro avviso, essi sono essenzialmente due. Il primo deve consistere in una propaganda fra i nostri tecnici, tendente a far conoscere la portata delle norme vigenti nel campo urbanistico e i criteri da seguire nella loro attuazione, allo scopo di soddisfare le esigenze dei singoli aggregati edilizi senza contravvenire alla lettera della legge, ma adattando questa, per quanto è possibile, ai nuovi tempi e ai nuovi bisogni. A tale scopo di grande utilità sono senza dubbio i corsi di cultura urbanistica, sul tipo di quello fondato presso gli Istituti superiori di ingegneria e di architettura di Roma.
L'altro rimedio deve necessariamente consistere nell'emanazione di una legge generale urbanistica che sostituisca le antiquate disposizioni contenute nella legge sull'espropriazione per pubblica utilità, offrendo ai Comuni la possibilità di formare piani regolatori completi e perfetti e l'opportunità di attuarli razionalmente.
A giustificare la generale aspirazione verso norme urbanisticamente più appropriate alle condizioni attuali bastano gl'interessi estetici connessi con un conveniente assetto dell'abitato. Come, infatti, poter contribuire alla salvaguardia dell'importante patrimonio artistico e archeologico di molti nostri centri se la legge attuale non permette di tener conto di siffatta esigenza nella formazione di piani regolatori, ma solo di considerare i bisogni dell'igiene e del traffico? Come tutelare le bellezze paesistiche, che la natura ha profuso nella nostra tetra, se la legge non contempla la formazione dei piani regionali, con i quali soltanto è possibile assicurare il rispetto di una zonizzazione che vada oltre i-confini del territorio di un solo Comune? E come raggiungere questo scopo, anche entro i ristretti limiti di una circoscrizione municipale, se la zonizzazione stessa è principio sconosciuto alla nostra legge urbanistica, talché solo mediante legge speciale si è potuto finora disciplinare i vari sistemi di fabbricazione previsti dai recenti piani regolatori?
L'incompletezza delle disposizioni generali in vigore dà ragione dell'uso ormai invalso di approvare per legge ogni piano regolatore, unico mezzo per riparare alle deficienze delle disposizioni stesse. Ma evidentemente non potremo ridurci ad avere tante leggi di piano regolatore quanti sono i comuni d'Italia. Già troppi sono i provvedimenti legislativi speciali, nella cui congerie è difficile orientarsi anche al più colto fra i nostri urbanisti.
D'altra parte con una nuova e più completa legge urbanistica deve anche essere colmata la lacuna, che tuttora esiste, riguardante la precisazione dei criteri direttivi per la formazione dei Regolamenti edilizi comunali. Agli effetti del razionale sviluppo di un aggregato edilizio il piano regolatore non è tutto. La sua compilazione non esaurisce tutte le esigenze di un organismo urbano, al quale si vogliano dare sani elementi di vita. Se ci si consente un raffronto con altra arte, diremo che il piano regolatore è, nell'urbanistica, quello che in pittura è il disegno. Il disegno serve ad assicurare una opportuna distribuzione delle masse e dei piani: ma il colore, il particolare originale del quadro è dato dal pennello. Così nel campo urbanistico, il piano regolatore fissa i criteri di trasformazione o di sviluppo dell'abitato, ma i dettagli fisionomici dei singoli quartieri sono disciplinati dal regolamento edilizio. E questo che permette, nelle linee generali tracciate dal piano regolatore, di mantenere l'unità di direttive, senza la quale il piano regolatore è praticamente annullato. È questo solo che impedisce che il tracciato solenne e maestoso delle vie venga tradito da costruzioni inadeguate, o troppo meschine o troppo sfacciate: che il beneficio di spazi liberi e di parchi pubblici, disegnati perché la città respiri, venga in pratica neutralizzato dalla fabbricazione di case antigieniche; che l'intensità delle costruzioni in determinati quartieri annulli le precauzioni prese nel piano regolato re per assicurare al traffico un andamento normale.
Attualmente così delicata materia è pressoché lasciata in balia dei Comuni, poiché il regolamento esecutivo della Legge comunale e provinciale, nel disciplinare la compilazione dei regolamenti edilizi, si limita a circoscrivere il campo nel quale essi possono spaziare, e due circolari, una del Ministero dei Lavori Pubblici e una del Ministero dell'Interno, ambedue vecchie e in molte parti contrastanti fra loro, forniscono criteri invero molto arretrati circa la formazione di queste importanti norme urbanistiche locali. Siamo perciò in condizioni tutt'altro che propizie nei riguardi di un severo controllo delle costruzioni: e ad assicurarlo in modo conveniente nuove disposizioni generali occorrono, orientate sul principio dell'etica fascista, che vuole rispettato il diritto sacro della proprietà privata, ma non permette che il ius utendi attribuito al proprietario trascenda in un colpevole ius abutendi, raramente vantaggioso per il soggetto che vi si abbandona, sempre assai dannoso per gli interessi della collettività.
La necessità di un'ondata rinnovatrice nel campo della legislazione urbanistica balza, del resto, evidente dall'esempio di quanto è stato fatto in tutti gli Stati europei, compresi quelli di recente formazione.
In Inghilterra la legge urbanistica del 1919, benché relativamente recente, è stata aggiornata due volte: col «Town Planning Act» del 1925 e col «Town and Country Planning Act» del 1932.
In Francia si sono avute nell'ultimo ventennio le leggi generali urbanistiche del 24 marzo 1919 e del 19 luglio 1924.
In Prussia dopo la legge sui piani di allineamento del 1875 sono state emanate la cosiddetta legge Adickes del 28 luglio 1902 sulle lottizzazioni, le leggi 2 giugno 1902 e 15 luglio 1907 contro il deturpamento degli abitati, nonché le leggi del Reich 28 marzo 1918 sulle abitazioni e 6 giugno 1931 per la tutela dell'economia tedesca, che contengono anch'esse un aggiornamento delle norme urbanistiche.
In Sassonia la legge generale urbanistica del 1° luglio 1900, generalmente considerata la migliore del mondo, anche se contenente troppo dettagliate disposizioni, è stata modificata con le leggi 20 maggio 1904 e 20 luglio 1932 per venire incontro alle nuove esigenze relative all'assetto degli abitati.
In Baviera l’ordinanza edilizia del 2 ottobre 1863 è stata in progresso di tempo sostituita da quelle in data 30 agosto 1877, 31 luglio 1890 e 17 febbraio 1901, completata quest'ultima dall'ordinanza del 3 agosto 1910 sugli allineamenti e dalla legge del 4 luglio 1923 sulla disciplina della sistemazione di zone inedificate.
In Olanda la legge urbanistica del 22 giugno 1901, impropriamente chiamata «Legge sulle abitazioni» è stata modificata nel 1921 e completata nel 1931 con disposizioni riguardanti la formazione di piani regionali.
In Isvezia le precedenti disposizioni generali in materia urbanistica sono state aggiornate con legge 29 maggio 1931 e uguale aggiornamento è stato operato in epoca recente in Norvegia con legge 22 febbraio 1924.
In Polonia nuove disposizioni generali in materia urbanistica sono state dettate con decreto-legge del Presidente della Repubblica in data 16 gennaio 1928.
In Jugoslavia una legge urbanistica informata a principì modernissimi è stata emanata il7 giugno 1931.
In tutta Europa, quindi, per tacere delle altre parti del mondo, un'attività legislativa modernizzatrice si è svolta, in questi ultimi anni, nel campo urbanistico, partendo dal presupposto che norme intese a disciplinare la sistemazione dell'ambiente dove la vita di una collettività deve svolgersi non possono essere influenzate dalle modificazioni sostanziali verificatesi nei mezzi e nei modi di soddisfazione dei bisogni umani.
In Italia, invece, se numerosi sono stati i provvedimenti di eccezione per Comuni singoli, la legge generale urbanistica è rimasta quella del 25 giugno 1865, che regola insieme I'espropriazione per pubblica utilità e la formazione dei piani regolatori. Ciò significa che, all'epoca delle automobili-razzo e degli aeroplani capaci di attraversare in poche ore gli oceani, lo sviluppo degli abitati è regolato ancora con norme pensate, discusse e approvate quando non esisteva nemmeno la bicicletta!
La necessità di eliminare questa incongruenza lasciataci in eredità dai regimi passati è stata perfettamente compresa dal Governo Fascista. Infatti nel nuovo testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, nella cui compilazione il Governo era autorizzato, sentito il Consiglio di Stato, a modificare e a integrare le disposizioni di legge emanate in materia sanitaria, è stata inserita all'art. 230 la seguente disposizione: «Sono sottoposti al parerei del Consiglio superiore di Sanità i piani regolatori generali dei Comuni, i piani regolatori particolareggiati dei Comuni, tenuti per legge alla compilazione del piano regolatore generale ed i regolamenti edilizi dei Comuni predetti».
Si parla qui di piani regolatori generali e di Comuni tenuti per legge a compilarli: ma sta in fatto che ne la legge del 1865 ne le altre posteriori contengono disposizioni in proposito. Solo Leggi speciali sono state finora emanate, non per imporre la compilazione di piani generali bensì per approvare quelli compilati di loro iniziativa dai Comuni interessati e che in base alla legge 1865 non avrebbero potuto riportare l'approvazione per Decreto Reale.
Come si spiega, dunque, la norma contenuta nell'art. 230? Forse i compilatori del Testo Unico e lo stesso Consiglio di Stato ignoravano le norme urbanistiche generali in vigore in Italia? Tutt'altro! La ragione, molto chiara e semplice, è fornita dalla circolare interpretativa diramata dal Ministero dell'Interno (Direzione Generale della Sanità) il 20 agosto successivo. In essa è detto che l'art. 230 «riporta le disposizioni dell'art. 22 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2889, modificate in modo da essere armonizzate con le disposizioni contenute nel progetto di legge urbanistica generale, predisposto dal Ministero dei Lavori Pubblici ed in corso di approvazione».
Possiamo quindi considerare la predetta norma come l'araldo annunziatore della tanto invocata legge urbanistica, la quale provvederà a regolare in modo completo la trasformazione e lo sviluppo dei centri abitati: e questo ci permette di guardare all'avvenire urbanistico dei nostri Comuni con la fiducia in uno stato di cose assai migliore dell'attuale. Infatti con l'emanazione di norme generali più appropriate alle esigenze della vita moderna non solo sarà eliminato una stato di incertezza, che è incentivo a programmi edilizi mirabolanti o è causa di inerzia assoluta, ma sarà portato un notevole contributo a quel processo di meditata evoluzione legislativa, che ha caratterizzato fin dal suo inizio l'attività del Regime Fascista e che ha condotto l'Italia in tutti gli altri campi alla avanguardia delle Nazioni più progredite.