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Vincenzo Civico
Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione
4 Settembre 2006
1942, la Legge Urbanistica
Ruolo socioeconomico dei nuovi piani territoriali in prospettiva parallela a quella della (quasi contemporanea) Commissione Barlow. Critica Fascista, 15 maggio 1942 (f.b.)

Abbiamo recentemente affermato (Critica Fascista del 1 marzo) che l'unità urbanistica non è più oggi la città, ma la nazione; e che pertanto uno dei compiti essenziali dell'urbanistica è quello di realizzare la organica distribuzione della popolazione su tutto il territorio nazionale. Lo strumento tecnico urbanistico è da tempo forgiato e non richiede che di essere usato: il piano territoriale. Ma perché l'opera dell'urbanista venga resa possibile ed efficace occorre prima l’azione politica. La distribuzione della popolazione è infatti la conseguenza, non la causa; è l'effetto ultimo di una causa fondamentale: il lavoro. La popolazione non si distribuisce a capriccio, ma si raggruppa e si organizza dove trova lavoro, cioè mezzi e possibilità di vita: è la legge umana più semplice e primordiale, elementare ed insopprimibile.

Ecco dunque la vera enunciazione del problema: distribuire il lavoro per poter distribuire la popolazione. E la distribuzione del lavoro è compito dell’uomo politico, del regime politico.

La distribuzione attuale della popolazione italiana è fondamentalmente sana e nell'insieme soddisfacente, ma presenta “punte” patologiche particolarmente gravi, ad eliminare le quali è stata indirizzata costantemente l'azione del Fascismo.

La lotta contro l'urbanesimo è stato uno dei fondamenti dell'azione politica del Fascismo. Il processo di inurbamento dura tuttora, ma è ormai contenuto e disciplinato; i risultati dell'azione del Regime sono già visibili e sarebbero ben maggiori se essa non avesse trovato molteplici ostacoli in troppi interessi precostituiti, in troppe cattive volontà, in troppe resistenze sorde e passive.

L'esagerato, spesso esasperato sviluppo delle città è stato determinato, fondamentalmente, dal nascere e dallo svilupparsi delle industrie le quali, non controllate ne disciplinate, si sono polarizzate verso le città, le hanno invase con i loro impianti ed i loro stabilimenti, con le migliaia e migliaia dei loro operai, si sono moltiplicate a libito, senza che i reggitori, né dello Stato né delle singole città, si preoccupassero per avventura di esaminare se questo vertiginoso addensamento di nuove fonti di lavoro in così ristretto spazio potesse minare l'organismo urbano e lederlo con gravissime malattie o se, peggio ancora, potesse sottrarre braccia al lavoro della terra, spopolare le campagne, minare le basi stesse della salute e della potenza della nazione, dando libero sfogo alla mania suicida dell'inurbamento.

È ben vero - è questa la comoda e semplicistica spiegazione del fenomeno che tanti vogliono dare - che la corsa alla città trova fondamento nel desiderio di vivere una vita più piacevole, più comoda, meno faticosa e nello stesso tempo più redditizia; di godere i cosiddetti “piaceri” delle città; ma è anche e soprattutto vero che ci si inurba sperando di trovare nelle città da lavorare più e meglio che in campagna o in paese; speranza ben giustificata dalla constatazione che tante e così cospicue fonti di lavoro sono state e continuano ad essere addensate quasi esclusivamente nelle città, Ma poiché, anche in una città grandissima e gonfiata all'inverosimile, le fonti di lavoro restano pur sempre limitate, si è giunti invece all'effetto nettamente opposto, che aveva raggiunto, sotto i passati regimi, proporzioni gravissime: la disoccupazione. Altro che piaceri della città, maggior guadagno, vita allegra e via dicendo.

Appare pertanto chiara, univoca, inequivocabile la soluzione vera del problema: togliere gradualmente, ma decisamente, dalle città maggiori una partedelle fonti di lavoro e, principali tra di esse, le industrie. Lo ripetiamo: è necessario compiere a ritroso il processo storico. Se le industrie addensatesi nelle città, verranno tolte e distribuite organicamente in altre zone del territorio, le rispettive maestranze non potranno non seguirle: cosi le città vedranno diminuire la loro popolazione e il fenomeno dell'urbanesimo si esaurirà poco a poco. Tolta la causa, tolto l'effetto.

Si guardi, del resto, a quanto il Regime ha già realizzato nel settore agricolo. Con la bonifica integrale sono state offerte nuove terre, cioè nuove fonti di lavoro, agli agricoltori; le campagne bonificate danno oggi lavoro e vitto sano a migliaia e migliaia di famiglie ed hanno consentito, anzi reso necessaria, la creazione di centri abitati, nettamente funzionali, modesti di proporzioni, sani e ridenti come lo sono tutti i nostri centri minori, permeati di campagna, di aria, di sole.

Con la eliminazione del latifondo si va operando una diversa distribuzione del lavoro e di conseguenza una diversa distribuzione della popolazione, che da esso anche prima traeva i mezzi di vita: si guardi alle grandiose opere in corso in Puglia e in Sicilia. Dotando i nuovi villaggi rurali, ed anche le singole unità poderali, delle comodità e dei ritrovati della moderna vita civile, secondo il preciso comandamento del Duce, si va attirando in essi anche una parte di coloro che si erano distaccati dalla terra o, quanto meno, si elimina la ragione di continuare ad inurbarsi.

Come nel settore agricolo, cosi occorre operare nel settore industriale. Una grande nazione moderna, bene organizzata e potente, non può essere soltanto rurale, pena la sua decadenza: deve essere anche, in giusta misura, una nazione industriale. Tutto sta nel ripartire organicamente e accortamente su tutto il territorio nazionale le varie attività, siano rurali o industriali o di qualunque altro i genere.

Un concetto fondamentale va innanzi tutto affermato: è assurdo ritenere che l'organizzazione industriale debba far perno sulla grande città; è vero anzi esattamente l'inverso. Nella grande città non esistono quasi mai le fonti di produzione delle materie prime che l'industria deve lavorare: tutto deve giungervi, con perdita di tempo e di denaro, con difficoltà di trasporto, dalle materie prime all'energia elettrica al carbone alle maestranze, che difficilmente sarà possibile far abitare nelle vicinanze degli stabilimenti. I prodotti industriali saranno di conseguenza molto più cari: si pensi che, soltanto per quanto riguarda gli operai, i salari dovranno esser più alti, date le spese di trasporto e dato, soprattutto, che la vita nella grande città è enormemente più cara. L'ideale, per una industria economicamente e socialmente sana, è di poter lavorare alla fonti le materie prime, aver a portata di mano, in quartieri di abitazione appositi a breve distanza, le proprie maestranze: e potremmo citare esempi cospicui felicissimi, se non temessimo di esser accusati di far gli agenti di pubblicità.

Ma v'è una ragione vitale che impone il decentramento industriale, l'allontanamento dai centri abitati: la ragione bellica. Ragione, si badi bene, non contingente, ma permanente: l'avvento del mezzo aereo ha abolito di fatto le frontiere tra gli Stati, ha reso possibile l'offesa su tutto il territorio nemico.

Certo il problema è particolarmente grave e complesso, non foss'altro in considerazione degli impianti esistenti nelle città, molti dei quali recentissimi, Ma ecco innanzitutto una norma inderogabile da sancire e far assolutamente rispettare: vietare la creazione di nuove industrie nelle città già inurbate, portandole invece possibilmente nelle zone di produzione delle materie prime o dell’energia motrice necessaria al loro funzionamento, in prossimità di linee di comunicazione, sia stradale che ferroviaria o per via d'acqua, per la organica rapida economica distribuzione dei prodotti in tutte le zone necessarie, ubicate in modo da esser il più possibile sottratte all'offesa aerea. Ed avviare, intanto, la sistematica smobilitazione e la nuova, accorta distribuzione delle industrie ubicate nelle città, a cominciare da quelle più vecchie e più bisognose di radicale rinnovamento.

Il processo di decentramento industriale porterà con sé, di conseguenza, un grandioso, complesso e interessantissimo e sano processo urbanistico. I lavoratori di queste industrie decentrate daranno vita a grandi e piccoli nuclei abitati a fondamento e funzione nettamente industriale, ma che presto si completeranno, per processo naturale, di tutti gli altri elementi di vita di un qualsiasi centro urbano, dal commercio all’artigianato e via dicendo. Si avrà così tutta una fioritura di nuovi centri, nei quali la popolazione sarà organicamente distribuita, perché organicamente distribuito sarà il lavoro. Questi nuovi centri a base industriale, stabilimenti da un lato, quartieri di abitazione dall'altro, opportunamente distaccati e organicamente distribuiti a servizio delle industrie, potranno esser veramente perfetti e sani, pieni di luce e di aria, e tenuti in quei limiti di popolazione che si vorranno; basterà infatti dosare per ognuno il numero e il genere delle industrie autorizzate a crescervi i propri impianti e a svolgervi la propria attività.

Cesserà, allora, per spontaneo esaurimento, l’affannosa, speculativa costruzione dei nuovi, brutti, spesso malsani quartieri di ampliamento, tutti a casoni e grattacieli, nelle città esistenti. Queste anzi, gradatamente, si svuoteranno di quanto di artificioso, di pleonastico, di assurdo vi aveva accumulato un secolo di errori e di “lasciar correre”, e un po' alla volta guariranno del loro male, torneranno a più efficienti e sane funzioni nel grande quadro delle attività della nazione.

Non si dimentichi che se ancor oggi, malgrado tutto, la nazione è sana, ciò è dovuto al fatto che la massima parte della popolazione è distribuita nelle campagne in ben ottomila circa centri abitati, dei quali appena due-trecento superano i ventimila abitanti. Quando questi centri maggiori - e soprattutto quelli che contano a centinaia di migliaia i propri cittadini - si saranno ridotti a poche diecine; e quando saranno sorte altre migliaia di piccoli centri, sia rurali che industriali, il problema potrà dirsi definitivamente risolto, Sarà infatti, un totalitario, autentico ritorno alla terra, non nel senso che tutti divengano contadini, ma che ognuno sia contatto diretto con la natura e con la campagna, divenute spesso un miraggio, un'utopia per i cittadini delle grandi città, Ne deriverà una maggiore sanità fisica e morale, ne scaturirà un sicuro potenziamento della razza.

L'indirizzo politico del Regime è tutto volto a questa grande mèta: ed è superfluo ricordare ancora parole e fatti del Duce. Basti citare, per quanto riguarda appunto il settore industriale, la legge per il decentramento industriale nel Mezzogiorno e nelle isole. Ma, anche qui tutto sta ad assicurare che la volontà limpida e lungimirante del Capo non venga tradita o comunque deformata nelle pratiche realizzazioni, C'è una legge: ma occorre darne la giusta interpretazione, garantirne la piena efficacia. Non per nulla F.M. Pacces ammonisce che quello del decentramento industriale è un tasto che bisogna continuare a battere, anche se fosse necessario un piano decennale … unicamente per la battuta del tasto.

Che cosa sta accadendo, infatti? Mentre si sancisce legislativamente la necessità assoluta del decentramento industriale, non soltanto per contingenti necessità belliche ma per creare il presupposto della potenza e della granitica invulnerabile solidità avvenire della nazione, assistiamo proprio ora al dilagare di un'altra pericolosissima moda, da noi già più volte denunciata: quella delle “zone industriali”, cioè di vaste estensioni di territorio tutte zeppe di stabilimenti ed impianti industriali, che vengono create e sviluppate - realtà romanzesca - proprio e specialmente nelle grandi e grandissime città, e cioè proprio nei centri urbani che abbisognano di una energica, drastica azione di svuotamento, di disurbanamento. Dopo la mania metropolitana, ecco la mania industriale prendere i capoluoghi: Bolzano, Ferrara, Apuania, Palermo, Roma e via dicendo, hanno già le loro grandi zone industriali consentite da appositi provvedimenti legislativi; molti altri brigano e si agitano per ottenere provvedimenti analoghi, come Pescara Pistoia ecc. Non basta. Lo stesso decentramento nel Mezzogiorno e nelle isole come viene attuato, in effetti, in molti, in troppi casi? Creando industrie, o zone industriali, non accortamente decentrate e distribuite fuori dei centri urbani, ma proprio in essi, anzi nei maggiori di essi, a cominciare da Napoli e da Bari.

C'è di che rimaner perplessi - per non dir altro - di fronte a questa singolare interpretazione del concetto di decentramento industriale: non resta che augurarsi che, come per il settore del risparmio e dei prezzi, giunga l’inflessibile volontà e la decisa azione del Duce, con le buone se possibile, con la forza se necessario.

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