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Fabrizio Bottini
Plinti urbani e sintomi di malessere
29 Giugno 2017
Milano
Pare si stia sviluppando a Milano una interessante discussione sull'invisibilità mediatica del «plinto di Porta Nuova» assediato dai veicoli (segue)





Pare si stia sviluppando a Milano una interessante discussione sull'invisibilità mediatica del «plinto di Porta Nuova» assediato dai veicoli (segue)
Pare si stia sviluppando a Milano una interessante discussione sull'invisibilità del «plinto di Porta Nuova» assediato dai veicoli. Invisibile nella solita, patinata pubblicistica decantatoria, sulla stampa di informazione, e nella coscienza collettiva in generale, tranne in quella degli utenti di quel luogo, naturalmente. Per chi non lo sapesse, nella terminologia un pochino gergale dei progettisti dicesi plinto urbano (Cfr. Jouke van der Werf, Kim Zweerink, Jan van Teeffelen, History of the City, Street and Plinth, in AA.VV. The City at Eye Level, 2016) l'interfaccia al pianterreno o comunque ai livelli inferiori, tra edificio e città, quello che da un lato sarebbe la vera misura dell'equilibrio prestazionale fra spazio pubblico e privato, ma dall'altro più di ogni altro dettaglio subisce il devastante impatto della coatta eterna «intermodalità», consistente nell'imperfetto passaggio da un veicolo qualsivoglia, alla naturale condizione di nudo pedone.

Non è forse un caso se, sul lungo arco vagamente positivista di vero e proprio trionfo del veicolo a motore nel determinare le forme urbane, si afferma l'utopia dell'ubiquità di quel plinto cavo costituito dall'obliterazione dei piani bassi, trasformati vuoi in varchi cavernosi di accesso ad autorimesse interne, vuoi in muraglioni ciechi concepiti per schermarsi militarmente dall'assedio del rumore e dell'inquinamento. Poi vennero la cosiddetta architettura post-modernista e i suoi epigoni, a ripensare la città secondo criteri pedonali, sostenibili, ambientalisti, ma con un piccolo dettaglio per nulla insignificante: la città che pensavano loro, stava solo negli sfondi dei rendering, quella vera continuando ad essere non molto diversa da quanto intravisto nel cartone automobilistico Futurama del 1939, o nei disegni di Victor Gruen per la pedonalizzazione di Fort Worth del 1954.

Oggi iniziano a vedere la luce e a entrare a regime i progettoni privatistici della T Rovesciata di Ricostruire la Grande Milano, variamente concepiti dalle archistar di turno e soprattutto dagli «sviluppatori» di riferimento proprio secondo quel criterio da superblocco, già stigmatizzato sul nascere a suo tempo da William Whyte, secondo cui qualunque obiettivo è da perseguirsi e comunque intendersi internamente alla trasformazione, non certo nel rapporto con la città e men che meno nell'interfaccia del plinto urbano. Il quale viene così a ridursi a incrocio piuttosto casuale fra la città dei rendering tutta pedonale, o addirittura guarnita di tricicli da consegne, deltaplani, droni, danze folk multietniche di passaggio in variopinti costumi tradizionali, e la triste grigia realtà di un sistema di flussi, pendolari o casuali, ancora in gran parte caratterizzato dall'automobile, e di cui i pur progettati interfaccia interni di box sotterranei o autosilo sono solo caricature della soluzione (esattamente come i dettagli folkloristici high tech o di socialità posticcia elencati prima). Accade che poi il solito fai-da-te riempie i buchi vuoti di senso lasciati dalla non urbanistica, ma li riempie a modo proprio, e nel caso specifico di Porta Nuova ammucchiando ferraglia assediante, sotto forma di centinaia di motorini, scooterini e motoroni sparsi sul marciapiede dalla parte del «vicolo di servizio» su cui si aprono alcuni degli scaloni di accesso alla mitica Piazza Aulenti e ai luoghi di lavoro e svago trendy.

L'area di Porta Nuova in uno dei progetti integrati del PUMS
Perché appunto, a recitare il ruolo del figurante più o meno hipster che si aggira tra torri e vetrine griffate, ci si deve arrivare in qualche modo, e tanti (praticamente tutti) di quelli che compaiono nelle foto patinate non abitano esattamente a un tiro di sasso da lì, e devono arrangiarsi.

Quei racconti di gente che scende dall'aereo e magari trascinandosi appresso un trolley da venti chili scorazza serena da un mezzo di trasporto pubblico sostenibile all'altro, senza neppure smettere di spolliciare sul tablet, come ben si sa appartengono alla narrativa ufficiale, come le promozioni che un paio d'anni fa proponevano improbabili fuori-Expo food-oriented in città al turista internazionale. La realtà più prosaica è quella di chi è almeno tanto fortunato da potersi muovere qualche decina di chilometri in scooter, per poi mollarlo sotto le scale e salire come in un episodio di Star Trek dentro la realtà parallela della post modernità autoindotta. E quanto detto per il caso del quartiere modello, vale ovviamente in termini anche assai peggiori per tanta parte della città e dell'area metropolitana, quella stessa città metropolitana coperta dalla buona novella del nuovo Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile, in questo momento nella fase delle osservazioni. Piano che a sfogliarlo, e a osservarlo anche nei dettagli, parrebbe promettere parecchie soluzioni anche al grosso problema descritto sopra, nonché a tanti altri.

Ci sono anche minuscole cadute di stile, dentro al complesso documento di piano del PUMS proposto ai cittadini, di cui val la pena forse ricordare almeno quei passaggi dove si afferma addirittura che «La linea M4, attualmente in costruzione, rivoluzionerà la mobilità [...] connetterà l’aeroporto di Linate, aumentando l’accessibilità internazionale». Prefigurando magari un utente che parte fiducioso dalla sua villetta di Willow Springs, Montana, con già salvato sullo smartphone il biglietto della linea blu che lo porterà dritto dritto davanti al bar del Cerutti Gino al Giambellino, agognata meta finale.

Sul medesimo registro, stavolta probabilmente per dare ai cittadini quel senso di atmosfera accogliente-futuribile già visto nella pubblicistica dei vari Eventi e Fuori-Eventi, la promessa di «realizzare High Line» sul modello dell'imitatissimo progetto newyorchese, anche se a ben vedere si tratta di cose con un rapporto inverso rispetto alla mobilità vera e propria, riuso di infrastrutture di trasporto dismesse ri-adibite al passeggio, ma appunto si tratta di dettagli di poco conto in sé. L'impressione è che anche nel caso del PUMS, esattamente come osservato per i plinti urbani dei progettoni pubblico-privati di riqualificazione, si tratti di qualcosa molto cresciuto su sé stesso e su una (assai organica e interconnessa, per carità) logica interna.

Da un lato il piano degli spazi che pare considerare i flussi qualcosa di indefinito, a cui certamente adeguarsi, ma fino ad un certo punto. Dall'altro il piano dei flussi, dove le funzioni, la loro ubicazione, le dinamiche e tendenze sociali, le innovazioni prevedibili o auspicabili, hanno certo uno spazio anche importante, ma stanno lì senza davvero interagire. Eppure, si tratta in ogni caso esattamente dei motivi per cui ci si muove verso quel posto e non verso altri, la ragione che induce a investire molto in infrastrutture pesanti e complesse in alcuni casi, e al massimo a ricucire un po' al risparmio in altri meno prioritari, vuoi per lo sviluppo socioeconomico, vuoi per lo specifico ruolo strategico generale. Ma già: quale strategia? Dentro il cervello dei cittadini, spesso leggendo questi grandi progetti di trasformazione urbanistica, o di rivoluzione trasportistica, o di innovazione immateriale del tipo smart city, si formano dei vuoti di senso colmabili solo con un briciolo di immaginazione.
Una immaginazione che deve però trovare punti fermi nella realtà tangibile: navigo sulle onde della smart city ancorato alla trasportistica di oggi, ai problemi di parcheggio e shopping di oggi, dentro i contenitori e le polarità di oggi, mentre invece tutto sta cambiando sotto i nostri piedi, e lo sta facendo secondo altri piani e programmi di settore. I quali a ben vedere si rivelano poco più che grandi complessi e coordinati patchwork di progetti, avendo rinunciato in partenza alla natura sostanzialmente olistica e comprensiva che dovrebbe avere un piano, nonché alla autentica trasparenza delle intenzioni rispetto ai cittadini. Quella piazza così trendy e pedonale assediata dalla ferraglia assai poco postmoderna delle moto e delle auto dei suoi frequentatori hipster, era un piccolo ma assai rivelatore sintomo di un male peggiore. Magari rifletterci aiuta, sempre che non ci accontentiamo di sognare una passeggiata sulla futura High Line, tra le fioriere.
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