il manifestoDifendere l’università come istituzione ancora sana, è un’impresa improba. Tuttavia bisogna farlo, è necessario e doveroso farlo», con postilla
Era da poco cessata la campagna contro l’università pubblica (luogo di malaffare, di familismo, di scansafatiche), ed ecco che ci risiamo. Ora per riguadagnare la dignità perduta a causa di alcuni “baroni” corrotti, ci vorranno anni.
Anni per dimostrare che, nonostante tutto, l’università è un luogo dove si può ancora (fino a quando?) discutere e ricercare in (quasi) libertà. E’ una cittadella accerchiata dove i nemici sono sia fuori che dentro, come dimostrano le recenti vicende di cronaca. Difenderla non certo come ha fatto la ministra Fedeli affermando che «le notizie terribili di oggi dimostrano che il terreno della corruzione e dell’illegalità è nazionale». Così si sparge benzina sul fuoco facendo grave danno proprio all’istituzione che si vuole proteggere.
Difendere l’università come istituzione ancora sana, è un’impresa improba e si corre il rischio di essere accusati di complicità nel malaffare. Tuttavia bisogna farlo, è necessario e doveroso farlo.
Innanzitutto perché rappresenta, malgrado le tentazioni ministeriali, un argine contro la logica del mercato che considera inutile e, anzi, dannosa, la conoscenza critica e la conoscenza in generale. E’ una deriva pericolosa le cui conseguenze, a distanza di anni, possono farci precipitare nella barbarie.
La seconda è che i ricercatori che vi lavorano sono nella stragrande maggioranza dei casi animati solo dal desiderio di far progredire questa conoscenza, come dimostrato dai tanti riconoscimenti e attestati che essi raccolgono in giro per il mondo, sia pure a fronte di finanziamenti pubblici irrisori. Se venisse stilata una classifica mondiale delle università in base al rapporto tra produzione scientifica e finanziamenti alla ricerca, non c’è dubbio che, in molti settori, l’università italiana risulterebbe al primo posto.
La terza è che i tagli alla ricerca e il blocco, da diversi anni, del turn over hanno danneggiato irreversibilmente questa istituzione. In tutti i paesi occidentali i finanziamenti di ricerca sono cresciuti, nonostante la crisi economica, salvo che in Italia. Ed è ben noto come la scarsità di risorse aumenti la corruzione.
Nonostante queste condizioni, l’università italiana ha continuato a funzionare, ed è già un «miracolo» che sia avvenuto. Queste condizioni nessuno le ha denunciate pubblicamente: numero chiuso, tagli alla ricerca, stop al turn over, una selva di regolamenti e di adempimenti burocratici che quasi impediscono ai docenti di fare il proprio lavoro: «Nessun altro comparto della pubblica amministrazione ha subito un salasso di questa portata. E nessun altro paese europeo ha risposto alla crisi indebolendo le strutture dell’alta formazione e della ricerca», ha sostenuto Walter Tocci.
Clientelismo e mercimonio, corruzione e servilismo, sono mali da tempo presenti nelle nostre università (anche se a fare la parte del leone sono sempre o soprattutto le facoltà di Medicina e Giurisprudenza), ma di certo la riforma Gelmini non solo non li ha curati, ma la sua ispirazione aziendalistica insita nelle “riforme”, ha finito con l’essere peggiore dei mali.
La valutazione del cosiddetto “merito” è stata affidata agli algoritmi escogitati dall’Anvur incentivando il conformismo (pubblicazioni scritte in inglese, bibliometria, case editrici compiacenti, eccetera).
Per non parlare della invenzione dell’«eccellenza» che è stata la porta d’ingresso per professori entrati, senza concorso, dall’estero per chiamata diretta e che ha reso possibile le cosiddette «cattedra Natta» assegnate a docenti e ricercatori per giudizio politico (i presidenti delle commissioni dovrebbero essere di nomina del Presidente del Consiglio).
I recenti fatti di malaffare e corruzione rendono ancora più difficile, per i docenti universitari che hanno a cuore le sorti dell’università, riuscire a difenderla. Ma solo loro possono farlo dissociandosi pubblicamente da questi scandali e promuovendo un Il «processo auto riformatore dall’interno, il solo che possa salvare questa università malata.
Come può una università seria non essere un fortino assediato in una società in cui il pensiero critico è considerato un turpiloquio, in cui la menzogna propagandistica cancella ogni verità, il dissenso èun reato da reprimere, ogni tentativo di cambiare il mondo migliorandolo un tentativo di sovversione? E dove per le armi si spende mille volte di più che per la formazione? Il «processo auto riformatore dall’interno», potrà «salvare questa università malata» solo se investirà, e cambierà, la società nel suo insieme.